Politica

Quella borghesia affascinata dai dandy rossi

Vedere la foto di un Massimo D’Alema elegante, in cachemire, come pure quella degli studenti che protestano con maglione e casco griffati fa venire in mente due pensieri che Leo Longanesi annotò nel suo diario romano del 1944: «Credono di essere a sinistra perché mangiano il pesce col coltello» e «non portare più la cravatta è un atto di indipendenza dai vincoli borghesi». C’è, in quelle immagini, un non so che di falso, di artefatto. Un qualcosa che dà la misura di una tentazione che spinge la borghesia (soprattutto la grande borghesia) ad abbandonare i suoi valori, le sue certezze, le sue solidità intellettuali per adeguarsi alle mode, alle idee, ai comportamenti propagandati dai cosiddetti «intellettuali di sinistra». Da quei personaggi (...)
(...) à la page, insomma, che imperversano, con fare saccente, in mondanissimi salotti politico-letterari e sulle pagine di giornali che erano stati portavoce della borghesia produttiva e benpensante del paese. Della borghesia vera, insomma.
La storia dell’Italia repubblicana, sotto il profilo dei comportamenti sociali, si è dipanata all’insegna di una vera e propria «metamorfosi della borghesia», per usare la bella e pregnante espressione di un grande sociologo francese, Jacques Ellul. Una metamorfosi, questa, che ha visto industriali (a cominciare da Gianni Agnelli) muoversi con il portafogli a destra e il cuore a sinistra; o esponenti della grande borghesia lombarda (come Giulia Maria Crespi) flirtare con i sessantottini o, infine, intellettuali in eskimo e capelli lunghi invadere le redazioni di giornali e riviste. Per non dire, ovviamente, di quella moda firmaiola di appelli e manifesti dei quali l’ultima espressione è di proprio di questi giorni. Si tratta della solidarietà della cosiddetta «società civile» alla povera Fiom maltrattata da Marchionne. Il pretenzioso mensile Micromega infatti ha chiamato a raccolta il solito mix di progressisti in servizio permanente effettivo - da Andrea Camilleri a Furio Colombo, da Margherita Hack a Moni Ovadia, da Gino Strada a Fiorella Mannoia e via dicendo - per sottoscrivere un appello che, nelle intenzioni, dovrà raccogliere 100mila firme prima del giorno, il 28 gennaio, dello sciopero generale dei metalmeccanici.
La deriva borghese verso la sinistra ha assunto le caratteristiche di un vero e proprio «dandysmo di massa» alla rovescia che ha costruito, poco alla volta, un mondo chiuso, esclusivo, aristocratico, dove regna una nuova solidarietà di classe e dove anche il linguaggio, il «sinistrese», è criptico e iniziatico. Questa deriva è il frutto avvelenato di un processo le cui radici storiche affondano lontano nel tempo. Risalgono, quanto meno, alle origini della nostra Repubblica e alla egemonia radical-marxista o gramsci-azionista, che dir si voglia, che ha finito per caratterizzare la cultura e la politica italiane per molti decenni. Questa egemonia ha fatto sì che certi temi, certi autori, certi modi di essere e di pensare non avessero neppure cittadinanza nel mondo della cultura e della stessa società civile in nome di una concezione «virtuista», cioè di una concezione che stabilisce una volta per tutte ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è vero e ciò che è falso. Una concezione - quella tipica dell’azionismo - sottilmente totalitaria, almeno dal punto di vista intellettuale. Ma anche opprimente. E profondamente antiborghese, se per borghesia si intende quel mondo solido, ottocentesco, fatto di certezze e di cose concrete, alieno dall’utopismo e incline a un certo naturale pessimismo sulla bontà innata dell’uomo, ma fiducioso nelle capacità dell’individuo. La fine delle ideologie e dei regimi fondati sul socialismo reale non ha ancora inciso sull’indiscusso predominio dell’egemonia gramsci-azionista o radical-marxista nella società italiana. E questo spiega anche perché continui la deriva della borghesia, grande e media, verso la sinistra.

Che nei tanti D’Alema o aspiranti D’Alema ha un’icona.

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