Milano - Ormai sono quindici anni che i pm di Milano provano a buttarlo giù. Ormai sono quindici anni che Silvio Berlusconi para avvisi di garanzia, intercettazioni, rogatorie. Ormai sono quindici anni che si sviluppa un mondo quasi virtuale fatto di accuse pesantissime con cui gli italiani hanno imparato a convivere. Anche perché, per una ragione o per l’altra, alla fine svaniscono sempre. E ora ci risiamo. Il Lodo Alfano - svelano i soliti sapienti dalle pupille eccitate - cadrà alla Consulta e tutto il sistema berlusconiano franerà. I giacobini, lavati nel fonte battesimale del girotondismo e del micromeghismo, vaticinano l’Apocalisse. Peccato che al giorno del giudizio una metà buona del Paese se non di più abbia fatto il callo. Come a un’esercitazione della Protezione civile che annuncia l’incendio che, si pensa, non ci sarà. Perché il rituale, anzi il ritornello, si ripete e si avvita su se stesso dal novembre ’94.
Ricordate? Berlusconi era premier, per la prima volta, da pochi mesi. La Seconda Repubblica era agli albori. Mani pulite, invece, al suo apogeo. Il primo avviso di garanzia, il più famoso, colpì il Cavaliere a Napoli, nel corso di un summit internazionale, e fu recapitato dal Corriere della Sera. Direttamente in edicola. Con il racconto delle presunte tangenti pagate dal Biscione ai militari della Guardia di finanza. Antonio Di Pietro, così si racconta, disse agli altri alfieri del Pool: «Io quello lo sfascio». Ci andò vicino. Perché l’impatto del missile giudiziario, il primo di una lunga serie, fu devastante. Il governo, certo non solo per quello, cadde, ma il Cavaliere si rialzò e riprese la sua marcia verso Palazzo Chigi. Di Pietro, invece, si era già defilato e aveva iniziato il suo slalom nella politica provocando l’ira omerica di Francesco Saverio Borrelli: «Se torna qui a palazzo di giustizia, lo butto giù dalle scale».
Altri tempi. Un’altra Italia. Di Pietro è oggi il leader dell’Italia dei valori, in sostanza uno dei capi dell’opposizione al Cavaliere, Borrelli è un pensionato raffinato, Gherardo Colombo è addirittura il presidente della Garzanti. Ma la mischia va avanti e il premier, sempre strattonato, sempre sul punto di essere interrogato, sempre a un passo da una nuova sentenza e da un nuovo filone giudiziario puntualmente annunciato da Repubblica e L’espresso, è sopravvissuto a tutto. Perfino al ricambio generazionale del Pool, perfino alle inchieste costruite con metodologia anti Cosa Nostra da Ilda Boccassini, pronta ad avanzare a colpi di intercettazioni e cimici, decisa a sfoderare l’arma finale: il teste Omega, alias Stefania Ariosto. Anche quella tempesta, scoppiata nell’estate del ’95, è ormai domata. E in qualche modo è finita anche la stagione dei processi cosiddetti politici: Sme, Lodo Mondadori - le cui conseguenze economiche, pesantissime, si fanno però sentire in queste ore -, Imi-Sir, dove non c’era Berlusconi ma il suo avvocato Cesare Previti.
È incredibile il numero di processi che si sono attorcigliati come un boa attorno al premier in questo quindicennio. Pezzi di archeologia giudiziaria, come Medusa e Macherio, fantasmi che non vogliono togliere il disturbo, come il Lodo, capi d’imputazione che invece incombono, come Mills, dopo aver fatto il giro delle sette chiese. Dal Parlamento alla Corte costituzionale. Il catalogo è chilometrico e ormai per forza di cose incompiuto: Caso Lentini, Sme, All Iberian, tangenti alle Fiamme gialle, diritti televisivi. Senza contare le cannonate per stragi sparate da Palermo e ammaccature varie.
Il calderone dei procedimenti anti premier assomiglia al cantiere del Duomo di Milano: sentenze di assoluzione definitive, accuse cadute per prescrizione o finite in nulla perché condonate, procedimenti sdoppiati, altri a lungo incubati, altri di cui gli stessi cronisti giudiziari più navigati fanno fatica a definire lo stato. E poi ci sono stati i faccia a faccia con i magistrati: il primo, storico, disertato da Di Pietro, è del 13 dicembre ’94, seguono gli altri, teatrali scontri fra poteri. E diventano occasione per improvvisare un palco: «Sì è vero - scandisce lui il 17 giugno 2003 in aula magna, fra marmi preziosi, poltrone comode, dodici telecamere e trenta microfoni - la legge è uguale per tutti ma per me è più uguale che per gli altri perché mi ha votato la maggioranza degli italiani». E la minoranza, che sperava di sloggiarlo con una condanna esemplare, è rimasta a bocca asciutta. La mazzata, sempre attesa, non è mai arrivata.
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