Quella nostalgia canaglia per la Prima Repubblica

Pur di attaccare il premier la sinistra dice di rimpiangere i governi democristiani. Ma è propaganda: quando il Cav scese in campo spazzò via un sistema dove avevano imperversato terroristi e cialtroni

Quella nostalgia canaglia 
per la Prima Repubblica

Tira aria di falsi rimpianti: quant’era bella la Prima Repubblica. Intendiamoci, anche io ho molte nostalgie e rimpiango - l’autocritica è bella se non la si vive come un martirio - gli articoli di sdraiato dipietrismo che scrivevo ai tempi di Mani pulite.
Certo, le mani erano molto sporche, a quell’epoca e in quella Repubblica dei partiti storici, e la ghigliottina mediatica tagliava teste a tutto spiano. E quei processi sommari distrussero il sistema che aveva fatto rinascere l’Italia dalle macerie e l’aveva proiettata nel miracolo economico, mentre Vittorio De Sica girava il neorealista Miracolo a Milano (Paolo Stoppa, Emma Gramatica). E oggi è di moda la nostalgia. Ma è spesso una nostalgia truccata e pelosa. Per esempio: oggi le sinistre fingono di aver sempre rispettato Alcide De Gasperi e la sua Dc, per contrapporlo ai leader di oggi e in particolare a Berlusconi. Ma è un falso: il Pci fu sempre impegnato in una guerra ferocissima di delegittimazione nei confronti dei democristiani chiamati «i Forchettoni» e accusati, non sempre a torto, di ogni serie di magnerie e ruberie.

E quelli rispondevano con Stalin che mangiava i bambini, i gulag, le disumane oppressioni e repressioni applaudite dal Pci e anche da noi (io ero un giovane socialista) del Psi sempre in bilico fra i «carristi» che applaudivano i carri armati di Budapest nel 1956 e gli autonomisti che strizzavano l’occhio al clan dei Kennedy, a «Camelot», a Marilyn Monroe e alle equivoche amicizie di John Fitzgerald che non disdegnava abbracciare mafiosi come Sam Giancana.

Santificare e demonizzare sono sempre due brutte lobotomizzazioni, due criminali elettrochoc con cui agire sul passato facendolo sembrare quel che non era. Oggi la sinistra residuata dall’ex Pci è pronta a santificare tutto pur di dare addosso all’arcinemico Berlusconi, e finge di aver sempre amato e rispettato l’antagonista democristiano, rimuovendo gli attacchi ferocissimi contro Aldo Moro, Amintore Fanfani, Giulio Andreotti, Francesco Cossiga, per non dire di Rumor o di Mario Scelba.

E poi la Prima Repubblica mitizzata o smitizzata degenerò non per caso nel mattatoio delle Brigate rosse, di Prima linea, delle organizzazioni nere e rosse che poi si intrecciarono e i cui militanti si sposarono (persino), sulle quali chi scrive ha indagato vanamente (nel senso che tutti hanno fatto finta di non capire) nella Procura generale di Budapest dove gli scheletri delle responsabilità sovietiche sono ancora appesi negli armadi. Ma la Prima Repubblica. Erano le Br «eterodirette» (come si diceva) o erano boyscout della rivoluzione? Altro che se erano (anche) eterodirette.

E quante collusioni, menzogne, commistioni, imbrogli che grondano sangue, martiri con la nuca sfondata, orfani, vedove, funerali angosciosi e inutili. La Prima Repubblica, come il corpo di John Brown nella celebre ballata americana, marciva nella sua stessa fossa quando fu spazzata via dall’arrivo del nuovo, l’arrivo di una borghesia confusa, disorganizzata e agonizzante che cercava di non soffocare di nuovo sotto il peso di una maledizione ideologica da cui cercava di liberarsi: quella fu la ragione storica, profonda, dell’appeal che esercitò il berlusconismo dei primi anni Novanta, quando si profilava la vittoria della gioiosa macchina da guerra di Achille - Akela - Occhetto.

Oggi tutto questo si dimentica, si perde la memoria del bene e del male e anche del ridicolo. Chi ricorda con quale tono dimesso e provinciale ci presentavamo in Europa? Ricordo quando Mario Scelba, il ministro dell’Interno della «celere» e della legge contro la ricostituzione del partito fascista, incontrò il primo ministro francese Mendès-France, non capì che France faceva parte del cognome e strinse la sua mano dicendo: «Scelba, Italia». O il segretario di Stato americano Henry Kissinger che uscì esausto da un colloquio con Moro che gli parlava di convergenze parallele dicendo che il nostro era un Paese da dimenticare. O l’ambasciatore americano Vernon Walters che impallidì sentendo Andreotti tessere le lodi del «moderato» Gheddafi.

O Riccardo Misasi che tesseva le lodi dell’aurea mediocrità come obiettivo ideologico, o Vincenza Bono Parrino, ministra incauta dei Beni culturali che assunse l’incarico dicendo: «Per ora non so nulla, ma studierò». O Franco Evangelisti che mi confessò il dare e l’avere dei partiti a libro paga («a Fra’, che te serve?»). O, ancora, Remo Gaspari, 16 volte ministro Dc, che in una trasmissione televisiva immortalata dalla Gialappa's band nel loro programma Mai dire tv, con lacrime agli occhi e accento abruzzese disse commosso di aver incontrato «da pari a pari» un ministro americano, lui che veniva da una famiglia modesta. Elio e le Storie Tese lo citano nella canzone «Sabbiature»: «Ti amo, ti amo Remo Gaspari , ti amo Remo Gaspari che atterra con l’elicottero nello stadio della sua città che ha fatto costruire lui e interrompe una partita di calcio per atterrare con l’elicottero e il pubblico invece di fischiarlo lo applaude perché ha capito che lo fa nel suo interesse», e il «volo blu» a scrocco di quell’elicottero di Stato per andare a vedere la Roma gli costò la carriera. L’Economist negli anni ’80 scrisse che «l’Italia è un mistero, perché ha il peso economico della Francia o della Gran Bretagna ma il peso politico del Portogallo».

Nessuna sorpresa dunque se lo stato d’animo degli italiani, di destra e sinistra, al tempo di Mani pulite era un misto di ira, sollevazione, gioia, voglia di linciaggio.
Si potrebbe continuare per pagine. La Prima Repubblica fu eroica e stracciona, meravigliosa e volgare, albertosordiana e da guerra fredda, la nostalgia ha sempre il retrosapore di lacrime dei pasti domenicali, ma vorremmo dire: lasciatela in pace, non impagliatela, non truccatela, e più che altro non ingannate i giovani che non l’hanno vissuta, come se fosse stata l’Eden della nostra infanzia, un’epoca magica in cui tutti si rispettavano nell’austera epoca storica della guerra fredda.

La Prima Repubblica è stata un’infanzia abusata, un’infanzia eroica e malavitosa, candida e sudicia di cui portiamo addosso i cascami, le colpe e le innocenze. Usarla come una giacchetta da tirare per fare propaganda oggi è una cattiva operazione. No, non fu l’epoca del rispetto delle regole prima che le regole fossero violate. Fu invece l’epoca della guerra civile latente, allora come oggi, e della reciproca delegittimazione, sempre attiva, sempre fonte di menzogne e di correttivi altrettanto menzogneri.

Quindi, per favore, piantatela di farvi una Prima Repubblica da Museo delle cere.

Rispettate, se non la storia, almeno la cronaca dei nostri anni amari, dei nostri anni ignobili e bugiardi, sempre tuttavia amati per l’equivoco sapore della memoria, come le madeleine di Proust, che sono in fondo biscotti pesanti e indigesti.
p.guzzanti@mclink.it

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