Non è mai stato un secchione, il giovane Umberto Bossi. Eppure racconta che, al momento della conversione alla nuova fede leghista, si dà a uno studio «matto e disperatissimo»: «Ero contagiato dal federalismo. Divorai cinquecento libri in pochi mesi». Gianfranco Miglio nutriva legittimi dubbi sulla cultura del capo: «Non sono mai riuscito a capire quali letture abbia fatto il segretario: nella sua biografia sostiene di avere divorato Pareto, Weber, Adorno, Marcuse, Cattaneo, Gioberti, Hamilton. Ma nelle moltissime conversazioni che ho avuto con lui non ho mai trovato neanche le più modeste tracce di quei contatti intellettuali; fatta eccezione, forse, per qualche mal digerito ricordo di Marcuse. Mi ha inflitto sproloqui senza fine, in cui Hegel e Marx andavano e venivano come in un romanzo a fumetti». In altri momenti, ai tempi della rottura, fu anche più maligno, come del resto amava essere: «Bossi è un ignorante sesquipedale, un mostriciattolo prodotto da unavventura da analfabeti». Del resto Miglio non aveva unalta opinione degli intellettuali: «Sono come le lumache, buoni solo se spurgati nella crusca». E comunque la cultura non serve granché alla causa: «Il politico troppo colto non riesce più a fare niente. Deve avere una sua rozzezza naturale per agire. Senza inciampi culturali». Miglio racconta che Bossi si iscrisse anche alla facoltà di giurisprudenza di Padova e voleva costringere gli altri parlamentari a seguirlo. Ma il progetto non ebbe seguito. Anche il popolo leghista non è mai stato particolarmente attratto dalla cultura e dagli intellettuali. Una ricerca dellAaster del 1922, fatta nelle leghistissime province di Bergamo e Lecco, individua come figura più odiata il bibliotecario comunale: «Agli occhi del montanaro lumbard è la somma di tutte le ignominie: è uno statale, un intellettuale, un parassita improduttivo».
Paolo Rumiz dà una sua spiegazione del perché ci sia una certa allergia da parte leghista: «Lintellettuale è una minaccia mortale. Hanno paura soprattutto che qualcuno gli smonti il mito e ne dimostri linsussistenza. I miti, si sa, non si discutono, si difendono. Sono allergici allanalisi culturale; la mitopoiesi è un processo delicato, incompatibile con lironia e autocritica. Per questo i villaggi del benessere minore hanno paura dellintellettuale urbano, vedono in lui il blasfemo degenerato, il soggetto che offende la santa lingua, blocca processi frettolosi di risacralizzazione della vita, smaschera nuovi feticci, impedisce loccupazione di spazi virtuali, stronca comode scorciatoie identitarie».
Del resto, se si vuole considerare la Lega un fenomeno di destra (ma non è scontato), questarea politica ha sempre avuto qualche diffidenza per la cultura. Gli esponenti di An, maramaldeggia Berselli, «appaiono tutti come felicemente esenti dal gravame dei libri». Esemplare, in questo senso, il rapporto di Francesco Storace con la dialettica: «A volte il cazzotto sottolinea il concetto». Ma la Lega disegna unaltra traiettoria rispetto alla destra italiana, alla quale non appartiene né per storia né per cultura (se non in qualche esponente). Il suo punto di riferimento principale è Carlo Cattaneo, padre del federalismo, di cui Ettore Albertoni, a lungo assessore alla Cultura in Lombardia, pubblicò lopera omnia. Il «gran lombardo» propugnava il federalismo, ma aveva in mente soprattutto di trasformare limpero austriaco in una sorta di commonwealth plurinazionale con una Lombardia autonoma. «Ma se il colto Cattaneo sentisse parlare Bossi» aggiungeva un impietoso Montanelli, «imbraccerebbe il fucile: per sparare contro di lui e i suoi squadristi.».
A spulciare sui banchetti nelle feste del Carroccio si leggono i nomi di Ernst Junger (Lo stato mondiale, Il trattato del ribelle e Sulle scogliere di marmo), Carl Schmitt (Teoria del partigiano e Le categorie del politico), Mander e Goldsmith (Glocalismo) e Alain De Benoist (Le idee a posto).
Un tentativo di elaborare un pantheon di riferimento per la Weltanschauung leghista lo fa la Fondazione federalista per lEuropa dei popoli, presieduta da Mario Borghezio. Il corpulento europarlamentare sabaudo è noto alle cronache soprattutto per le sue provocazioni verbali e i comizi tonitruanti, dove non lesina parolacce e insulti («siamo la Padania bianca e cristiana, non merdacce levantine»). Ma ha anche una sorprendente cultura. Studioso della kabbalah, bibliofilo, cultore della tradizione, è un grande conoscitore dellastrattismo e del surrealismo. Possiede lopera omnia di René Guénon, depositario della tradizione. Da giovane scappò di casa, a Torino, per andare a vedere di persona il punto di riferimento italiano della destra, Julius Evola, «il nostro Marcuse », come lo chiamava Almirante, «lavanguardista della reazione, un ossimoro vivente».
Nel documento presentato dalla Fondazione federalista, nel giugno del 2007, cè un vertiginoso elenco di ottantadue nomi che intrecciano autori di temi identitari, federalisti e cattolico-tradizionalisti. Lista sorprendente, partorita da un consesso di dirigenti leghisti. Ci sono, oltre a Miglio, lo sceneggiatore della «Ciociara» Cesare Zavattini, la scrittrice Oriana Fallaci (nella versione anti-Islam), la filosofa mistica Simone Weil, il padre spirituale dellAfrica Leopold Sédar Senghor, il filosofo tedesco di destra Ernst Junger e lautore del «Compagno» Cesare Pavese. Ma anche il creatore di Corto Maltese Hugo Pratt e il grande storico Federico Chabod, il liberale Luigi Einaudi e il dittatore dello Zaire Sese Seko Mobutu. Nomi sorprendenti, soprattutto lultimo: «È stato un dittatore ma non feroce» spiega Borghezio. «Io sono un cultore della sua politica dellauthenticité. E poi ha liberato il suo popolo dal colonialismo».
Angelo Alessandri indica il nome di Zavattini: «Fu lui, insieme a Brera, a coniare il termine Padania, anche se loro accentavano la i finale». Con intenti evidentemente diversi. Mario Borghezio sceglie Adriano Olivetti, «un imprenditore illuminato di sinistra che la sinistra ha dimenticato».
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