«Quella scelta non aveva senso. Ma funzionò»

Gianni: «Gli imposero quella soluzione perché era un signore». Sandro: «Non ci parlammo per anni»

Riccardo Signori

Quelli della staffetta, come dire: quelli dell’Ok Corral, ormai sono vecchi ragazzi. Lo zio Uccio se n’è andato e forse era l’ultima ragione che li teneva legati a quella storia da cui sono fuggiti per strade diverse. Gianni si è dato alla politica, Sandro saltabecca tra campi di calcio e studi televisivi. Tutti ci siamo divertiti a metterli uno contro l’altro armati. Figuriamoci: Mazzola e Rivera come Coppi e Bartali, Mazzinghi e Benvenuti, Motta e Gimondi, Barazzutti e Panatta, Berruti e Ottolina. E fondamentalmente Valcareggi è stato il magistrale regista della leggenda raffigurata in realtà: lanciarli un contro l’altro dividendosi una maglia, un ruolo, una partita, maledizioni e benedizioni. E oggi sono rimasti soli, un po’ più soli.
Di solito il caro estinto si porta via solo i buoni ricordi, ma Rivera e Mazzola hanno cercato di scambiarsi il ruolo anche in questo. D’accordo parlarne bene, però senza esagerare. Insomma Mazzola non gli rivolse parola per anni e non può dimenticarsene oggi. Se Rivera non prese bene quei sette minuti contro il Brasile, non può perderne ricordo proprio ora. Meglio così. È questo il loro levar di cappello al Valcareggi che Rivera definisce «un’ottima persona. E forse tal valore è stato quello che ha permesso di accettarne qualche decisione non proprio comprensibile sul piano tecnico». Ovvio a cosa si riferisca il golden boy che fu. Il passare degli anni stempera molte cose, non le convinzioni. «La staffetta con Mazzola per noi non aveva senso. Però funzionò. Stranamente... ». In realtà in quell’Italia, in quel gruppo, in quel mondiale, c’era molto di strano. Rivera conosce il dietro le quinte. E ricorda: «Allora la stampa aveva un grande forza sulla federazione. Oggi è più aggressiva, ma ha meno peso politico. La staffetta fu una invenzione di Valcareggi, costretto a farvi ricorso per le pressioni giornalistiche e di chi nello staff, ad esempio il capodelegazione Mandelli, aveva pretese da ct senza esserne capace. Solo una persona così malleabile poteva accettare di subire una condizione tanto poco vivibile».
Mazzola forse ha qualcosa in più con cui legare il ricordo allo «zio» Uccio. «Era della stessa classe di mio padre e gli chiedevo che giocatore fosse mio papà, perché non l’ho mai visto giocare». Ma dietro il fantasma di Valentino, Valcareggi ha trovato il modo per stendere la rabbia di Sandro che, un giorno, sbottò durante una discussione tecnica. «Perché mai, nonostante io abbia alle spalle 60 partite in nazionale, sono messo fuori da lei che non ne ha giocata nemmeno una?». La risposta venne dallo spirito di un toscanaccio adottivo: «Io non ho giocato perché ero riserva di tuo papà, che era un campione». Mazzola non precisa quale anno fosse(«’73 o ’74»), ma ricorda quando si incrinarono i rapporti con Valcareggi. «Nella finale dell’europeo, con la Jugoslavia, non mi fece giocare. Ero giovane e la presi malissimo. Per i successivi tre-quattro anni non ci siamo più parlati. I rapporti tornarono normali solo dopo il Messico: durante quei mondiali non ci parlavamo ancora. Quindi non ho mai capito perché decise per la famosa staffetta». Mazzola-Rivera, quel trattino resta un punto di domanda, nonostante la fierezza nel pensare che quella loro sia stata la nazionale più amata. Parola di Rivera. E anche vincente.

«Credo che Valcareggi, insieme a Bearzot, sia il ct che ha ottenuto i traguardi più importanti: un europeo e quel secondo posto in Messico», suggerisce Mazzola. Però... «Non aveva senso dire prima chi doveva uscire tra il primo e il secondo tempo». Lo dice Rivera, lo pensa Mazzola. Il loro epitaffio si chiude così.

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