Quella vita di un sedicenne giocata sulle ruote del lotto

Il dramma del ragazzo che si è impiccato dopo aver perso 30mila euro di famiglia

Cristiano Gatti

I giornali sono zeppi di pietose nefandezze, ma è sacrilego abituarsi a notizie come questa: un ragazzino sedicenne che penzola impiccato in cantina, vittima dei suoi rimorsi e dei suoi fantasmi. Vicino, nel buio dell’antro defilato che ha scelto per sparire, l’ultimo atto della sua fulminea esistenza, quasi un’accorata richiesta di redenzione: «Perdonatemi».
C’è qualcuno che ha il cuore di negarglielo, questo perdono? Troppo grande il suo gesto, troppo pesante la disperazione, perché davvero qualcuno possa anche solo pensare di negargli comprensione. Resta soltanto l’esiguo spazio per una carezza.
Andrea, come l’hanno chiamato i giornali per rispetto della vera identità, non ha aspettato di affrontare tutta una vita, tra alti e bassi, colpe e riscatti, successi e fallimenti, per tentare un bilancio finale. Andrea è sceso subito, alla prima fermata: insopportabile, dal suo punto di vista, la vergogna accumulata. Nessun reato insanabile, nessun delitto feroce sulla sua fresca coscienza: solo una stupida caduta nel vortice del gioco. Un gioco minimo e innocente, il gioco di zie e donne pie: il Lotto.
La vicenda ha come teatro il basso Veneto, città di Rovigo. Andrea è uno studente modello dell’istituto alberghiero di Adria. Non solo. Il papà, la mamma, le sorelle: tutta la famiglia lo ricorda come ragazzino tranquillo. Forse introverso, questo sì. Ma non è un difetto. Adesso, può essere semplicemente una delle spiegazioni...
L’inizio di questa fine risale all’estate. Spesso Andrea sostituisce la sorella grande nella tabaccheria di famiglia. Una volta prova a trafficare sulla macchina del Lotto. Poi due, poi tre. Gioca i numeri, stampa la bolletta, aspetta le estrazioni. Ovviamente, senza versare in cassa la puntata dovuta. Nel breve volgere di qualche settimana, la sorella comincia a notare questi buchi di gestione. Troppe differenze tra l’incasso e la somma delle giocate, i conti non tornano mai.
Si apre lo psicodramma di famiglia. La donna consulta il padre, titolare di una ferramenta, per cercare il motivo di questi ammanchi. Ma è un mistero. Si teme una truffa elettronica. C’è persino una denuncia contro ignoti depositata in Procura. Il clima si fa ogni giorno più pesante, per una tabaccheria di provincia trentamila euro spariti nel nulla sono un problema enorme.
Il rompicapo alla fine prende la direzione del fratellino. Andrea, istintivamente, nega. Ma poi, incalzato dal papà, crolla. Racconta in lacrime d’aver cominciato così, per semplice prova, e d’essere poi finito nel vortice della dipendenza. La sua confessione è il racconto in sedicesimo dei drammi ormai diffusi in tante famiglie italiane, dove la febbre del gioco arriva a sconvolgere equilibri domestici e a seminare cupe ossessioni.
In questo caso, non si può dire che ad Andrea manchi l’appoggio dei suoi. Di fronte all’ammissione, dopo le inevitabili discussioni, tutti quanti decidono di fare fronte comune e di lasciarsi alle spalle la brutta esperienza. Si lavora per ripianare la perdita, si cerca di non farne un dramma.
Purtroppo, è Andrea che la vive come una tragedia. Chiuso nei suoi pensieri, non regge i sensi di colpa. Servirebbero spalle larghe, servirebbe qualche ruga, per superare la caduta. Ma non si hanno, a sedici anni: la palestra della vita non ha ancora formato la muscolatura per superare certi ostacoli.
L’altra sera, un vicino di casa si affaccia alla finestra e vede Andrea camminare in modo strano verso il box-cantina. Osservando bene, nota nella penombra qualcosa di atroce. Oddio, che fa quel ragazzo? Una telefonata a casa, due parole imbarazzate al padre. Sullo slancio di un gelido presentimento, il papà si precipita in cantina, verso lo spettacolo più tremendo, verso l’unica scena che nessun genitore vorrebbe mai vedere: Andrea, il suo ragazzo, pende dal soffitto, ormai esanime, ormai libero dai tenebrosi spettri di un insanabile rimorso.
No, non può passare come una notizia delle tante. Bisogna trovare ancora un residuo di sensibilità, per comprendere quanto grande e assurda sia questa notizia. Poi, ciascuno può iniziare le debite meditazioni. In casi come questo, s’indulge regolarmente sul vuoto ideale e sullo smarrimento esistenziale di generazioni che fatichiamo a capire. Anche stavolta partirà la litania delle cause profonde: l’eccesso di benessere, la provincia opulenta e omologata, il vuoto di valori...
E come no: quando la tragedia s’infila nei nostri tempi, intendiamo subito quanto servirebbero i valori. Qualcosa che insegni ai nostri ragazzi dove stia il giusto e dove stia l’ingiusto. Qualcuno che tracci chiara, davanti ai loro occhi, la linea demarcatrice tra bene e male. Di più: qualcuno che riesca a trasferire loro interessi e passioni.


È triste, come conclusione: ma ogni volta riscopriamo quanto sarebbero importanti famiglie e scuole adeguate. Esattamente le figure sociali che da decenni, con indefessa opera da sfasciacarrozze, stiamo impietosamente demolendo. Purtroppo, senza avere in mente neppure la più vaga idea di un’alternativa.

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