Ma quelle bimbe in pose da modelle mettono i brividi

Dapprima un sottile, subdolo fastidio. Poi, improvvisa, una rabbiosa repulsione. Infine, paura autentica. Terrore, anzi, al pensiero che Alice Liddell e Flora Rankin, Irene MacDonald e Xie Kitchin, oggi, potrebbero essere le tue figlie o nipoti, le tue sorelline o allieve. Il fiume carsico della pedofilia avvelena le falde dei nostri tempi infelici e impregna, a distanza di oltre un secolo, quelle fotografie seppiate.
L’età dell’innocenza era lo scudo che proteggeva le piccole modelle. Ma davvero l’età dell’innocenza non abbandonò mai il reverendo Charles Lutwidge Dodgson quando vestiva e svestiva le bimbe e le sistemava in pose ammiccanti? O quando si rivolgeva ai rispettivi genitori per chiedere il permesso di sottoporre i loro angioletti a lunghe sedute nel suo studio? Impossibile non rabbrividire leggendo brani come questo, tratto da una lettera al cappellano e docente di ebraico A.L. Mayhew: «La mia grande speranza, lo confesso, riguarda Ethel, che (artisticamente) vale dieci Janet. Consideri il suo caso dal punto di vista del fatto che di per sé la bambina è totalmente indifferente al vestito. Se si verifica il peggio, e non mi concederete alcuna nudità, credo che dovreste consentire a tutte e tre di essere fotografate in calzoncini da bagno, per compensarmi della delusione!».
Perché, un minuto dopo aver ricevuto questa lettera, il professor Mayhew non corse a casa del mittente per riempirlo di botte e poi fargli giurare su tutti i santi del paradiso di non avvicinarsi mai più alle sue piccole? Se sapessimo rispondere avremmo compreso quasi tutto della società inglese nella seconda metà dell’Ottocento. Ma non sappiamo rispondere. E questa, in fondo, è la risposta più eloquente. Del resto, non sappiamo neppure quali segreti contenessero le pagine del monumentale diario del reverendo relative ai giorni della rottura con la famiglia Liddell, nel giugno del 1863. Qualcuno le ha strappate. Di certo in un articolo del 1932, scritto per il centenario della nascita di Lewis Carroll (perché di lui stiamo parlando, dell’immaginifico autore di Alice nel paese delle meraviglie), l’ottantenne Alice Liddell affermò: «purtroppo mia madre stracciò tutte le lettere che Mr Dodgson mi scrisse quando ero piccola». E di certo lo zelante nipote e biografo S.D. Collingwood si preoccupò di far sparire dagli album fotografici del celebre zio i «pezzi» più scabrosi: i ritratti nudi.
Un rudimentale profilo psicoanalitico di Lewis Carroll sarebbe facilissimo. Basterebbe mettere in fila alcuni elementi: padre severissimo, balbuzie accentuata, austero collegio, pulsioni sessuali assenti (leggi, represse), vocazione per la carriera ecclesiastica che a un certo punto si rivela insufficiente... Ma qui ciò che conta è il fotografo. Dilettante, certo, ma di notevole talento. Lo sottolinea Gyula Hálász, alias Brassaï (nato a Brasso, in Ungheria, nel 1899, e morto a Nizza nel 1984) nello scritto che accompagna le prose del Nostro tradotte per la prima volta in italiano in Sulla fotografia (ed. Abscondita, euro 12, traduzione di Rossella Rizzo) e arricchite da un corredo di immagini.

Quelle bimbe innocenti sanno bene di non vivere nel paese delle meraviglie. Se ne stanno lì, immobili e sicure di sé come conturbanti donnine. Il peccato è dall’altra parte dello specchio o dell’obbiettivo. Il peccato è un fiume sotterraneo.

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