Tre consenzienti e un’indenne. O noi non l’abbiamo capita, o la barzelletta del ministro Sacconi non parlava affatto di stupro... Era brutta nel senso che non faceva ridere, e questo per una barzelletta è un bel limite, ma è anche un altro discorso. Invece a lui e alla sua storiella sulle suorine in convento e sui i banditi cattivi si è scatenato addosso di tutto: «Sullo stupro non si scherza», «blasfemo», «maschilista», «gravissimo», «inaccettabile», «spaventoso»... Ussignur... Tanto che in serata sono arrivate le meste scuse del politico: «Sfortunato quel Paese che perde la capacità di sorridere. Non intendevo offendere ma mi offende la disonestà intellettuale».
Dài signore, però, un po’ d’ironia. Hanno appena finito di accusarci di avere l’utero come unica bussola, il ciclo come solo calendario, l’isteria come stato d’animo principe e noi ci facciamo cogliere sull’orlo di una crisi di nervi per un’uscita infelice? L’eccesso di reazione con cui è stata accolta la freddura del ministro del Welfare (ha avuto la bella idea di usarla in risposta al catastrofismo espresso dalla Cgil in merito alla manovra economica) ci ha fatte risputare indietro dalla Storia in una manciata di ore. Dalla Bindi alla Camusso, ieri è stato tutto un sentirsi «oltraggiate», un rimanere «sgomente», un «attendere scuse» come donne, in quanto tali.
Tali ma non quali. Noi non le vogliamo le scuse del ministro Sacconi e non vogliamo la difesa della Camusso e nemmeno la solidarietà della Bindi. Perché non ci sentiamo insultate e perché in generale, per sentirsi insultate, bisogna avere qualcosa in comune con chi ci insulta. Altrimenti chissenefrega. Una barzelletta è una barzelletta e il massimo che può fare è non far ridere. E allora? Certe volte le donne hanno questa malsana, falsissima tendenza a volersi sentire un «tutt’uno» contro il mondo che ci fa peggio di quanto ci possano fare i maschi cretini, le battute volgari o le cerette rimandate troppo a lungo. Togliersi l’umorismo è peggio di togliersi i tacchi. Perché dobbiamo scorticarci da sole metterci all’angolo come se fossimo perennemente braccate, sembrare tristi quando siamo tutt’altro?
Un po’ come quello stracciarsi le vesti della (di solito) brava Cristina Comencini a Venezia. Che nei fischi con i quali è stato accolto il suo Quando la notte ha voluto leggere becera violenza maschilista anziché valutare il fatto che forse, quaranta minuti di pellicola a indugiare sulle valli del Piemonte (il film è prodotto dalla Film Commission di Torino), in una storia che dovrebbe parlare di maternità avrebbe potuto risparmiarceli. Perché erano forse eccessivi, noiosi, sì insomma erano un po’ come la Corazzata Potemkin secondo Fantozzi.
Invece anche lei, l’illuminata Cristina, non ha resistito alla tentazione di tingere tutto di rosa o di azzurro come nelle stanzette Ikea: è che «la maternità fa schifo agli
uomini» ha strillato offesa la regista. Che poi perché agli uomini dovrebbe far schifo la maternità? Loro al mondo come ci arrivano, in dirigibile?Accidenti come ci fanno paura le donne quando non sanno fare le femmine...
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