Cultura e Spettacoli

Quelle «Forbici» tagliate su misura

Non sarà la scena madre d’un thriller. Né lo scatto rubato da un cronista di nera a un delitto familiare. Anche se Correndo con le forbici in mano è già sugli schermi del cinema (con Joseph Fiennes e Gwyneth Paltrow, regia e sceneggiatura di Ryan Murphy), e d’inauditi disastri di famiglia presenta la cronaca e il memoir per immagini, la frase stampata in copertina sul romanzo da cui la pellicola è tratta (tradotto da Giovanna Scocchera per Alet, pagg. 300, euro 14), non è scelta a titolo di prova o confessata premeditazione di reato. Intitolandoci il racconto della sua storia vera, Augusten Burroughs - ma il vero nome dell’americano è Christopher Robinson - pensava, più che al suo culmine cruento, alla rincorsa con cui da cima a fondo si svolse e adesso si legge o vede in sala.
È il modo migliore per tener dietro al destino. Una serie di scatti e di affondi. Tutti al limite, tutti all’estremo: tutti puntati al rialzo, giocati d’azzardo, tenuti al livello di un clou che non cade nemmeno per un attimo. Tanto che l’unica vittima che il corridore si lascia dietro, è il gatto di casa. «Morto di leucemia felina o di vecchiaia», secondo il parere della sua padroncina e carnefice. Stremato «per reclusione in cesto da biancheria dentro uno scantinato umido senza cibo né acqua per quattro giorni», secondo i sospetti del narratore. Il piano superiore di casa Finch, va detto, non era tanto diverso dalla cantina dell’agonia del micio. Situata in una danarosa strada del New England su una fila di edifici immacolati, imponenti, era l’unica che non c’entrava niente. «Un ululato in un quartiere di sussurri». Una facciata rosa che sembrava «si stesse sgonfiando». Ci abitava lo psicologo di mamma: il dottor Finch. Era la copia sputata di Babbo Natale. Senza il vestito rosso bordato di pelliccia e mai una volta con il camice bianco. In testa, ogni tanto il berretto col pon pon. In tasca sempre manciate di palloncini colorati. Sulla giacchetta il distintivo della Giornata Mondiale del Papà.
Papà il medico era di una variopinta discendenza: una squadra di marmocchi e marmocchie dai zero ai trentatré anni tirati su con la moglie ufficiale e legale - la vecchia Agnes, gobba come un bastoncino di zucchero «ma senza la riga rossa a spirale» - e con svariate mogli «emotive e spirituali». Il piccolo Augusten 13enne, entrò a fare parte del team: quando la mamma poetessa - interprete di scritte da toilette e aspirante étoile del New Yorker - prese a mangiare fiammiferi e non fu più in grado di tenerlo. Il nuovo ambiente familiare doveva essere il set dell’educazione del ragazzo e lo scenario del suo Bildungsroman capolavoro. Da leggere come il percorso di formazione che lo promosse a «un dottorato in sopravvivenza». Da prendere come la versione originale (non ci piove) e autografa della nascita e crescita di un talento leggendario.
Di lui, in sintesi, la leggenda già racconta che scappato dal suo manicomio, arrivò 23enne a New York con un telefono portatile, una sveglia Braun e un canotto giallo in cui dormire. Che fece il cameriere, il velaio, il dog-sitter e il commesso in pasticceria prima d’esser sorpreso con le mani nella marmellata, farsi licenziare e tentare la via del copywriter e del romanziere. Raccontando (senza romanzare troppo) di sé, lui è anche più stringato. Stringendo sul finale le sue forbici le chiude così: «Feci l’inventario della mia vita: avevo 17 anni, nessuna istruzione scolastica, nessuna formazione professionale, niente soldi, niente mobili, niente amici». Ma poi alla teoria del lamento dà un taglio netto e fatale: «Potrebbe andare peggio - dissi tra me -.

Potrei essere a un ballo scolastico».

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