Quelle lettere dal manicomio

S ono poco più di cento pagine, ma di quelle che tolgono il fiato. Sono i testi - non rivisti e con qualche errore di battitura - che la poetessa milanese Alda Merini scrisse tra il 1965 e il 1972. Sono le lettere della passione. Non solo di quella amorosa, ma anche del calvario per il reiterato internamento in un ospedale psichiatrico. Dopo oltre trent'anni, questi fogli sono stati trovati in un baule nella casa sui Navigli dove Alda Merini ancora vive: sono le «Lettere al dottor G», fresche di stampa per i tipi di Frassinelli.
Cominciamo dal destinatario delle missive redatte a macchina da scrivere o a mano durante i periodi di internamento al Paolo Pini di Affori: il dottor G è il neuropsichiatra Enzo Gabrici, che ebbe in cura Alda Merini nei periodi più cupi. Oggi novantanovenne, Gabrici ripercorre nella prefazione al volume il legame speciale tra un medico attento alla sperimentazione di nuove terapie e la futura poetessa milanese. Leggere oggi questi scritti di Alda Merini, allora sposata con Ettore Carniti, proprietario di alcune panetterie, e madre di quattro figli (tre dei quali concepiti tra il va e vieni dal Pini), lascia commossi. Troviamo una giovane donna lucida e al tempo stesso appassionata osservatrice della malattia che deformava la sua mente, prigioniera di una situazione che non le permetteva di esprimere la sua arte. Di famiglia modesta e innegabile talento, la poetessa dei Navigli all'epoca era già apprezzata da autori quali Giorgio Manganelli, David Maria Turoldo, Luciano Erba e il suo primo libro in versi, «La presenza di Orfeo», fu lodato nientemeno che da Montale e Quasimodo.
Eppure. Eppure arrivò il manicomio, con «i lenti passi» nei corridoi. Poi l'elettrochoc, gli psicofarmaci («sono molto stanca - scrive -. Il Surmontil mi deprime e mi altera le idee») e la narcoanalisi. È lo stesso Gabrici a spiegarne il procedimento: «L'iniezione lenta di Pentothal provocava un progressivo e lento addormentamento e la successiva liberazione emotiva di contenuti del profondo che erano utili a far emergere sia cariche istintive represse sia immagini emotive del subcosciente». Ma una straziata Merini, in uno scritto del 1970, chiedeva: «Perché vuoi scavare nella mia anima per trovarvi ciò che di più meschino e di reietto vi abita?».
Ora amico e amato, ora temuto giudice, il dottor G - che ha letto alcune lettere solo ora - è il destinatario di righe che anticipano tutta la Merini-poetica di là da venire. La poetessa cantava la libertà («Ho sete della mia libertà e qui non è facile ottenerla, anzi qui dentro non esiste»), la disperazione («Io mi sono una donna che si dispera/ e non ha pace in nessun luogo mai»), la solitudine («So benissimo che al mondo nessuno si occupa di me»). Rifletteva sui «normali» che «non hanno mai provato il nero sapore della miseria» mentre lei, come scriverà anni dopo ne «L'altra verità», è una «diversa».
S'interrogava persino sulla necessità del trattamento sanitario obbligatorio e, con parole che solo l'esperienza sulla propria pelle sa suggerire, giudicava la legge Basaglia che impose la chiusura dei manicomi «non giusta e non necessaria». Perché alcuni malati hanno bisogno di protezione, perché la paura più grande è tornare nel mondo: «Tutto io perderò, tornando fuori/ all'aperto nel mondo che qui dentro/ ove resiste un tremito o follia/ qui si nasconde veramente il vero».

Invece, e per fortuna, la produzione poetica di Alda Merini dal '79 avrà un nuovo slancio, e con lei i riconoscimenti del pubblico e della critica.
«La creazione attraverso l'arte poetica è stata il suo balsamo», ha detto il dottor Gabrici. La poesia ha risolto il «caso Merini».

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