Quelle opere d’arte sfoggiate sul bancone Dai modelli a vapore alle super automatiche, com’è cambiata la macchina

Il primo amore è stata una Faema del ’52. Un colpo di fulmine scoppiato 18 anni fa. Il romagnolo Enrico Maltoni è appena diventato maggiorenne e scopre la passione della vita. Macchine da caffè liberty, futuristiche, capolavori del design. Le vorrebbe tutte.
Piano piano, la sua diventa una collezione che, oggi, finisce in mostra in Italia, a Londra, in Thailandia, Israele, Russia, Venezuela. Tappe itineranti per far godere a tutti il frutto delle levatacce mattutine sopportate pur di accaparrarsi il pezzo migliore in qualche mercatino dell’antiquariato sparso lungo la penisola e non solo. Le macchine degli anni Cinquanta - racconta - le ha scovate in tutto il mondo. Uniche, come la Cimbali «Rubino» del ’56 o La Pavoni modello 55, firmata Ponti, Fornaroli e Rosselli. Il marchio è troppo glorioso per lasciarselo sfuggire: è del 1905 il modello La Pavoni a vapore, che campeggia nei bar d’inizio secolo. Imponente, con le decorazioni liberty e la caldaia interna che permette di preparare un caffè in mezzo minuto. Sono piccole opere d’arte, realizzate dagli artigiani, che amano mostrarsi ai clienti: «Nasce così la definizione di macchinista, ovvero il barista - racconta Maltoni -. Più avanti comparirà il banconista, che aziona la macchina a pistone». Il primo a brevettare il nuovo sistema è Achille Gaggia: la sua creatura omonima compare nel dopoguerra, nel ’48, e diventa un classico del genere. «È più veloce e la leva estrae il caffè a una pressione molto maggiore: scompare il retrogusto di bruciato e arriva la crema», quella che distingue il caffè del bar da quello di casa.
Dettaglio dopo dettaglio, le macchine diventano tecnologia e design. Enzo Mari e Bruno Munari firmano La Pavoni «Diamante», quella con cui vincono il concorso del ’56. Scompare anche il pistone e si passa all’erogazione continua, con la Faema «E61», chiamata così in onore dell’eclissi di sole del 1961. Negli anni ’60-’70 i materiali sono più economici, le macchine sempre più funzionali, si spostano dietro il banco, «a muro», nascoste alla vista.

Negli anni Ottanta è la volta della plastica, poi tocca alle super automatiche e alle capsule: un bottone, un gesto, qualità costante. Maltoni ha ancora un paio di sogni: «Gio Ponti ha realizzato cinque macchine per La Pavoni: ne ho tre, mi mancano le altre due».

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