Nessuno vuole scomodare l’eterno fantasma del grande vecchio. O rispolverare sempreverdi teorie dietrologiche. Più modestamente, conviene porsi qualche domanda, come ha fatto l’agenzia Agi l’altro ieri sera: qualche manina ha agevolato il lavoro frenetico degli investigatori milanesi alle prese con le serate di Arcore? L’Agi per la verità sostiene che questa teoria, parente di quella del complotto, alberga in casa Pdl e forse nella stessa testa del premier.
Certo, la sindrome del nemico invisibile colpisce un po’ tutti i leader quando si sentono sotto assedio. Si sono spesi fiumi di parole per indicare i manovratori occulti nascosti dietro le quinte di Mani pulite, però è altrettanto vero che il contesto in cui è maturata l’indagine, le feste, i festini e il bunga bunga, non è nato l’anno scorso o due anni fa. Vere, verosimili o false che siano, queste storie aleggiavano su Arcore e dintorni da prima. Poi qualcosa si è mosso o, forse, qualcuno è stato spinto nell’arena: già ai tempi del D’Addariogate si era ipotizzata una regia occulta. Un manovratore. Un suggeritore. E qualcuno aveva identificato il nemico in Rupert Murdoch, il magnate australiano in competizione col Cavaliere. O addirittura in qualche frangia dell’amministrazione americana, inviperita per la politica energetica filo russa.
Tesi indimostrabile ma alimentata da singolari coincidenze: Patrizia D’Addario, escort di professione, decide di buttare a mare la sua professione e gioca il tutto per tutto per introdursi nelle residenze del premier con telefonino e registratore. Antonello Zappadu, fotografo sardo, beffa la security di Villa Certosa, scatta centinaia di immagini, anche imbarazzanti, sfugge come e meglio di Batman ai controlli.
Adesso si punta il dito contro i signori della penombra italiana da tempo immemorabile: i servizi segreti deviati. Espressione che assomiglia molto a un rompicapo ma segnala un problema reale. I conti non tornano. Troppo lungo il fronte dell’inchiesta. Troppi gli elementi rotolati nell’imbuto dell’indagine. Troppi i personaggi convogliati sul set della Procura. Certo, per questa vicenda si è mosso un apparato investigativo impressionante, ma il dubbio è che l’innesco, o qualcuno degli inneschi, sia stato collocato sottotraccia. Ragionamenti. Domande. Punti oscuri. Nessuno immagina che le ragazze coinvolte abbiano spiato e perdipiù consapevolmente il premier, piuttosto si tratta di capire se qualcuno abbia facilitato l’inchiesta. E si colgono altre suggestioni. Nel mare magnum dei soggetti controllati e intercettati c’è anche il prefetto Carlo Ferrigno. Va ad Arcore a cena, partecipa ad una serata, poi si confida con un amico: «C’erano orge». E le ragazze «bevevano tutte, mezze discinte». Ferrigno non è solo un prefetto. No, è stato anche il capo della Direzione centrale della polizia di prevenzione, erede del famigerato Ufficio affari riservati. E punta su di lui l’inchiesta aperta nel 1996 dopo la scoperta sull’Appia di un archivio segreto che proviene proprio dall’Ufficio affari riservati. Fra quei faldoni salta fuori una parte dell’ordigno esploso nella notte fra l’8 e il 9 agosto del 1969 su un treno a Pescara e, come se non bastasse, a legare mistero con mistero, documenti sul controverso incidente aereo in cui perse la vita nell’ormai lontano 1962 Enrico Mattei.
Ferrigno tiene in cassaforte alcuni gialli italiani, ma si ritrova a sua volta dentro la cornice del Rubygate. Dopo essere stato a sua volta accusato, in precedenza, di aver preteso prestazioni sessuali da alcune donne. Le storie s’intrecciano? Anche se il Rubygate sembra travolgere tutto e tutti, escort e pezzi della nomenclatura. Forse ci sono altri personaggi che si agitano nel retrobottega dell’indagine? Le strane manine ipotizzate dall’Agi.
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