Quelli che... meglio un rudere che il profitto

Aver bloccato con due denunce un finanziamento di 25 milioni di euro al Colosseo, non è stato il gesto isolato e azzardato di un incosciente: è solo l’ultimo caso di una lunga lista di interruzioni, blocchi, impedimenti, inibizioni, che viene messa in campo, a danno del nostro patrimonio artistico, ogni volta che un privato cittadino propone allo Stato qualcosa di diverso che una semplice donazione senza fini di lucro. Della Valle è stato chiaro: la sua non è beneficenza; se lo Stato vuole quei soldi per il Colosseo, occorre che in cambio accetti determinate condizioni di sfruttamento del marchio. Ovvero, occorre che lui ne tragga profitto.
Ecco la parola che molte persone, molti sindacati, molti professori, e in generale l’intera struttura pubblica del ministero dei Beni culturali, non vogliono tuttora che si pronunci quando si parla di patrimonio e di bellezza dei nostri borghi: profitto. Parola tremenda, infetta, che fa venire subito alla mente l’interesse egoistico che viene anteposto a quello collettivo. Finché un privato cittadino fa volontariato e supplisce la carenza di personale tenendo aperte chiese e musei, è ben accettato. Finché elargisce denari a fondo perduto nella cura delle nostre bellezze, è ben accettato. Finché una fondazione bancaria restaura delle opere d’arte segnalate dalla soprintendenza, è ben accettata. Tutte queste situazioni infatti non scalfiscono la centralità dello Stato nella salvaguardia del patrimonio: anzi la consolidano.
Difatti per adesso i profitti sui beni culturali, dopo la legge Ronchey del 1993, sono stati realizzati soltanto nelle attività più marginali, come il bookshop e la biglietteria, ma anche lì sempre con gravose limitazioni: il prezzo del biglietto e gli orari sono decisi dallo Stato. La Legge Ronchey era una timida apertura, che però si è fermata lì, infatti siamo ancora a quel punto.
Il privato è accettato nella misura in cui conferma l’attuale impostazione dello Stato come garante supremo (quasi tutte le fondazioni bancarie, ad esempio, hanno una forte componente pubblica nel consiglio di indirizzo).
Quando invece, come Della Valle, si propone un’entrata più decisa del privato nel pubblico, allora iniziano gli ostacoli, i blocchi. Alla base di questa faccenda del Colosseo, come in tanti casi simili, vi è un’ideologia che in Italia è ancora solidissima: l’idea che il bene comune debba essere preservato dalla «ingordigia» del singolo individuo. L’uomo è una creatura che spinge per istinto al tornaconto personale: per cui se nella storia le collettività hanno raggiunto determinati traguardi di beni comuni - come l’assistenza sanitaria garantita a ciascuno o l’arte come simbolo di memoria condivisa - tali beni comuni possono essere preservati solo da un’organizzazione superiore che li tutela. Li tutela da chi? Da noi, che singolarmente tendiamo al nostro ego. Già nel 1971 Pasolini ammoniva i pericoli di questa ideologia: «Oh generazione sfortunata...

che hai cercato la salvezza nell’organizzazione, che non può produrre che altra organizzazione...». Questo sta accadendo nell’affare Della Valle: per impedire un privato, l’organizzazione dello Stato chiama in causa altro Stato, in forma di tribunali, magistrati e Corte dei Conti.

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