N el diario che cominciò a scrivere nel marzo 1942, mentre la bandiera con la svastica tedesca garriva su Parigi, Jean Cocteau racconta, sotto la data del 14 aprile, di un incontro con una coppia che lo colpì. Lui, Jean Fontenoy, era un giornalista e scrittore, avventuriero politico transitato dal marxismo al nazismo; lei, la moglie, Madelaine, «una donna dallaspetto fragile e malato», era una celebre aviatrice. Fontenoy si presentò tardi, alle dieci, ubriaco fradicio, in compagnia di un soldato-contadino polacco raccattato davanti a Maxims. Trasandato comera, sembrava un pagliaccio: «il vestito, le calze, i pantaloni, la cravatta, la camicia dimostrano un disordine ingenuo». Eppure, a Cocteau luomo non dispiacque: «Fontenoy mi commuove per una specie di purezza confusa». E ciò malgrado il fatto che le rappresentazioni di Les Parentes terribles fossero state disturbate dai suoi amici. Quando Cocteau se ne lamentò, Fontenoy replicò che le sue opere sembravano, come quelle di André Gide, «masturbazione individualista». E si mise a raccontare le sue imprese in Russia nella filonazista Légion des volontaires français nellinverno passato. Cocteau annotò: «Salta fuori che la Legione è un insieme di individualisti e di gangster che saccheggiano gli stati maggiori e si vedono ricompensati, per queste imprese, con la fucilazione». E commentò: «La Germania non può ammettere unindisciplina che diventa eroismo solo per miracolo». Tuttavia, egli non poté fare a meno di guardare con simpatia questo tipo singolare e inquietante. Il 22 giugno, annotò: «Fontenoy mi piace. È sincero e illegale», una «canaglia impura». E aggiunse: «Fontenoy, privo di forza per linattualità, preso nellattualità. Sa troppo e non abbastanza per essere fuori tiro»: è uno «spauracchio dei politicanti».
Su questo personaggio è stata pubblicata unampia e appassionante biografia dal titolo Fontenoy ne reviendra plus (Stock, pagg. 494, euro 24) scritta da Gérard Guégan cui è stato assegnato il Renaudot, uno dei più prestigiosi premi letterari francesi. Il volume è al centro di polemiche non per il valore letterario e scientifico del lavoro, ma per il soggetto, politicamente scorretto e imbarazzante. Eppure, la vita di Fontenoy ha le caratteristiche di un romanzo dalle tinte fosche: un romanzo che si conclude drammaticamente il 28 aprile 1945, tra le rovine fumanti della capitale del Reich, a poche centinaia di metri dai carri sovietici, col suicidio per mezzo di una capsula di cianuro. Fontenoy aveva quarantasei anni, essendo nato il 21 marzo 1899. Il suo cadavere non sarebbe più stato ritrovato e il suo nome sarebbe finito nelloblio e nella lista degli innominabili.
«Drogato e gangster intellettuale» (così lo avrebbe definito Maurice Martin Du Gard), aveva consumato la vita privata allinsegna del disordine e degli eccessi di ogni tipo, macerato da un maschilismo che solo la seconda moglie aveva saputo contenere. Lunico suo vero amico fu lo scrittore e filosofo comunista Brice Parain, che gli aprì le porte della Nouvelle Revue Française. Anche il suo percorso intellettuale e politico era stato singolare. Comunista fervente fino alla metà degli anni Trenta, aveva lavorato come corrispondente dalla Russia e inviato in Cina, al seguito di Chiang Kai Schek. Tornato in patria nel 1934, si iscrisse al Ppf, il partito fascista francese fondato da Jacques Doriot, altro transfuga del marxismo. E cominciò, per questuomo che aveva denunciato il nazismo dalle pagine della NRF, la stagione di quella militanza nella destra estrema che lo avrebbe portato durante loccupazione tedesca a diventare firma di punta della stampa collaborazionista e a imbarcarsi nellavventura della Légion des volontaires français.
Lo scandalo nato attorno alla pubblicazione della bella biografia di Fontenoy dimostra che in Francia cè «un passato che non passa»: quello del «collaborazionismo intellettuale» parigino. Un tabù difficile da abbattere, Maurizio Serra ha sottolineato, in uno splendido saggio su La Francia di Vichy. Una cultura dellautorità (Le Lettere, pp. 300, euro 28), che tale «collaborazionismo», privo di radicamento popolare, «filotedesco e filonazista», fu la «pagina più sulfurea del regime» intrisa di pessimismo esistenziale e fatalismo visionario.
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