Questa era la mia GUERRA

Dal verde di Mezzanego all’arcipelago della Maddalena i giochi si sovrappongono allo sgomento

Questa era la mia GUERRA

Nel corso dell’autunno-inverno 1942-43, nei pomeriggi liberi da impegni scolastici, scorrazzavo in bicicletta sulle strade della periferia militare della Maddalena, allora sede di un importante arsenale navale. Spesso raggiungevo il ponte di collegamento con l’isola di Caprera, superato il quale mi spingevo fino all’enorme blocco di granito che, onorato da picchetto armato, custodiva il sepolcro di Giuseppe Garibaldi.
Nella direzione opposta non trascuravo qualche puntata, attraverso il centro del paese fino alla località Moneta ove sorgeva la residenza di Villa Weber, divenuta poi nota nell’estate successiva per aver ospitato il duce, prigioniero del governo Badoglio.
In tali punte, attraversavo piazza Comando, sede dell’Ammiragliato e del Circolo Ufficiali. Sul lato prospiciente il mare scorgevo l’imbarcadero per i collegamenti marittimi con la costa sarda di Palau, che s’intravvedeva sullo sfondo. Al di sopra della piazza, in posizione arretrata, si stagliava contro il cielo la collina di Guardiavecchia, sede di un osservatorio meteo militare.
Sulla via del ritorno verso casa (deposito Cremm - caserma del Corpo reale equipaggi militari marittimi, che disponeva di alloggi di servizio), transitavo dinnanzi al Circolo Tennis, al Circolo sottufficiali con relativo cinema per le forze armate e, dopo un’ampia curva, al Commissariato della Regia Marina.
Sulla destra, al di là della gettata di scogli, oltre uno stretto braccio di mare, spiccava la piccola Isola Chiesa tutta ricoperta di macchie di fichi d’India, in mezzo alle quali svettavano due altissimi tralicci di ferro (a forma di Tour Eiffel) tra i quali stendevano i cavi aerei della stazione radio militare. Al di là di questa isoletta, a non grande distanza, sorgeva dal mare la più grande isola di S. Stefano, con i suoi imponenti e tozzi serbatoi cilindrici adibiti a depositi di nafta.
Oltre il deposito Cremm, s’incontrava la Caserma Regina Elena del Regio Esercito e, un bel tratto dopo una curva a gomito verso sinistra, l’Ospedale militare. Poi, su un lungo rettilineo la strada, oltrepassando l’Arsenale marittimo, proseguiva fino alla località Stagnali, dopo il ponte per Caprera.
Tutto ciò rappresentava per me un piccolo paradiso, destinato peraltro a dissolversi anche troppo presto.
Su queste strade, circonfuse da un’atmosfera che si poneva idealmente a metà tra la brughiera di certa campagna abbandonata e indefiniti paesaggi descritti in alcuni racconti ottocenteschi, spesso mi capitava d’incontrare un soldato a cavallo.
Dino era un soldato in grigioverde. Non vecchio ma certamente non più di leva. Uno di quelli che un tempo si chiamavano «firmaioli». Apparteneva ad un corpo di cavalleggeri e indossava certi schinieri di cuoio nero che gli proteggevano le gambe, dal collo del piede fin sotto il ginocchio.
Provenendo da chissà quale reparto di stanza sul continente, si era ritrovato nell’arcipelago sardo a fare da stalliere, maniscalco e guardiano a una coppia di cavalli da sella, assegnati (si fa per dire) allo svago dell’ammiraglio-comandante la piazzaforte navale (costui, per la cronaca, era Bruno Brivonesi, ex responsabile del Servizio informazioni Regia Marina, con moglie inglese - e secondo radio-fante, destinato «in punizione» alla Maddalena).
In tutto il periodo in cui mi trovai a percorrere le strade serrate dell’isola, una sola volta mi capitò d’incontrare l’Eccellenza e signora che trotterellavano allegramente, senza meta definita. In relazione a quell’incontro, il mio ricordo indugia su una frase di circostanza che, sorridendo, la gentile amazzone mi rivolse accennando al mio... piccolo cavallo di ferro.
Altre numerose volte, l’incontro era di rango assai più modesto ed era dovuto al fatto che dovendo gli animali quotidianamente uscire dalla stalla per respirare aria libera e correre un poco, erano a turno montati dal loro stalliere.
Diventammo amici, e fui infine invitato da Dino a montare Bugno, un sauro di quattro anni. Acquistai rapidamente sempre maggior sicurezza, sopportando stoicamente sulle gambe nude i micidiali pizzichi delle cinghie del sottopancia: non era ancora giunta per me l’ora dei pantaloni lunghi, per non parlare di stivali, come lo sport ippico avrebbe richiesto.
Nel corso di una delle piccole galoppate, sempre assai brevi, Bugno perdette un ferro. Dino ne fu un poco contrariato: probabilmente già si vedeva costretto a metter mano alla forgia; ma tant’è. Scesi subito di sella per evitare all’animale l’eventualità di un’azzoppatura e raccolsi il ferro.
Mai avrei potuto immaginare che per me (e, in forma ben più drammatica, per molti altri) la Storia stava per compiersi. Scorrevano le prime ore del pomeriggio del 9 aprile 1943.
Il giorno successivo, poco dopo le 14, le sirene dell’allarme aereo lacerarono l’indolente silenziosità dell’aria, preannunciando il peggio. Alcuni minuti dopo, infatti, una quarantina di bombardieri B17 dell’Us Air Force, divisi in tre formazioni, apparvero nel cielo terso e cominciarono a seminare morte e distruzione nelle principali installazioni militari. Una divisione navale, alla fonda tra le isole dell’arcipelago, fu semi-distrutta (con l’affondamento dell’incrociatore pesante «Trieste» e il grave danneggiamento del «Gorizia»), l’arsenale gravemente colpito, alcuni sommergibili colati a picco. Si contarono tra gli equipaggi varie decine di morti.
Immediatamente, per tutte le famiglie dei militari di stanza nell’isola, fu diramato l’ordine di «sfollamento obbligatorio». All’alba del giorno successivo, partenza rapida per Sassari; un mese dopo, io, ligure di Mezzanego, ritorno a Bergamo, dove già ero vissuto nei precedenti quattro anni.
La mia permanenza in Sardegna si era protratta per meno di nove mesi, dal settembre 1942 al maggio 1943. Ma furono certamente i mesi che più s’impressero nella mia memoria di ragazzino e i più felici della mia vita (anche successiva).
Scorrono nella mia memoria le immagini di un’atmosfera da Far West, una specie di paradiso di natura selvaggia, pieno di cose nuove, fino ad allora alimentate soltanto nei sogni indotti dall’insaziabile lettura dei libri di Emilio Salgari, autore tanto amato dai raggi dell’epoca.
Vidi trasformata, così, la mia vita precedente - condotta in ambiente cittadino da ragazzetto di famiglia borghese - in una specie di miraggio ove, in assoluta libertà, tutto mi era possibile. Sembrava che il mondo circostante fosse di mia proprietà, e che potessi disporne a piacimento. In tale contesto, va inserita la storia di Bugno.
Le bombe americane interruppero bruscamente quel sogno e dopo un mese trascorso in un albergo di Sassari, un idrovolante Savoia-Marchetti della Lai (Linee aeree italiane) - a quel tempo l’Alitalia era solo agli albori - trasportò la famiglia da Olbia-Golfo Aranci alla foce del Tevere, dove finì... ingloriosamente il mio battesimo dell’aria.
Un avventuroso viaggio ferroviario da Roma a Bergamo, mi riportò poi in quell’ambiente che mi ero illuso di aver lasciato per sempre. A mio ricordo, fu la prima cocentissima delusione della mia vita... ma quante altre se ne sarebbero aggiunte!
Io allora non potevo capire ciò che gli avvenimenti di quel periodo rappresentassero per la storia del mondo e per il futuro di tutti. Mi rendevo contro a malapena che la guerra volgeva al peggio.
Alla fine dell’ottobre precedente si era verificata la sconfitta di El Alamein e in gennaio era iniziata la tragica ritirata di Russia. Meno di due mesi dopo, deponevano le armi gli ultimi difensori dell’ultimo lembo di terra d’Africa.
Poi, l’invasione della Sicilia, la caduta del regime, lo straziante armistizio concesso dal nemico con la tremenda, umiliante formula dell’«unconditional surrender», e, fatto moralmente più straziante per coloro che avevano vissuto nell’ambiente della Marina, l’imposizione della consegna della flotta con i cannoni brandeggiati verso il basso (al di sotto della linea orizzontale) e le «insegne nere» di resa issate a riva.
Tale degradante consegna al nemico, avvenne a Malta il 10 settembre 1943. Il giorno prima, poco oltre le Bocche di Bonifacio, l’onore del comandante della squadra in mare, fu salvato da una provvidenziale bomba tele-comandata tedesca, che affondò la corazzata Roma, sulla quale erano innalzate le insegne dell’ammiraglio Carlo Bergamini).
Le vicende della Regia Marina dopo l’infausto armistizio dell’8 settembre, furono rese emblematiche nella lettera (che mi sembra il caso di riprodurre integralmente) che il capitano di fregata Carlo Fecia di Cossato scrisse alla madre subito prima del suicidio del 21 agosto 1944.
«Mamma carissima, quando riceverai questa mia lettera, saranno successi dei fatti gravissimi che di addoloreranno molto e di cui sarò il diretto responsabile. Non pensare che io abbia commesso quello che ho commesso in un momento di pazzia, senza pensare al dolore che ti procuravo.
Da nove mesi ho molto pensato alla tristissima posizione morale in cui mi trovo, in seguito alla resa ignominiosa della Marina, a cui mi sono rassegnato solo perché ci è stata presentata come un ordine del Re, che ci chiedeva di fare l’enorme sacrificio del nostro onore militare per poter rimanere il baluardo della Monarchia al momento della pace.
Tu conosci che cosa succede ora in Italia e capisci come siamo stati indegnamente traditi e ci troviamo ad aver commesso un gesto ignobile senza alcun risultato. Da questa triste constatazione me ne è venuta una profonda amarezza, un disgusto per chi ci circonda e, quello che più conta, un profondo disprezzo per me stesso.
Da mesi, Mamma, rimugino su questi fatti e non riesco a trovare una via d’uscita, uno scopo alla mia vita. Da mesi penso ai miei marinai del «Tazzoli» che sono onorevolmente in fondo al mare e penso che il mio posto è con loro.
Spero, Mamma, che mi capirai e che anche nell’immenso dolore che ti darà la notizia della mia fine ingloriosa, saprai capire la nobiltà dei motivi che mi hanno guidato. Tu credi in Dio, ma se c’è un Dio, non è possibile che non apprezzi i miei sentimenti che sono sempre stati puri e la mia rivolta contro la bassezza dell’ora.
Per questo, Mamma, credo che ci rivedremo un giorno.
Abbraccia papà e le sorelle e a te, Mamma, tutto il mio affetto profondo e immutato. In questo momento mi sento molto vicino a tutti voi e sono sicuro che non mi condannerete. Carlo».
Fatalmente, dopo la partenza dalla Maddalena, mai più rividi i miei due amici. Pure essi, come milioni d’altri, rimasero travolti dall’inumano vortice del conflitto? Per il tredicenne d’allora, fortunosamente non toccato dal suo corso infausto, questo rappresentava una sorta d’avventura quasi meravigliosa. Soltanto molto più tardi si fece strada la realtà, quando le cicatrici della vita si fusero nello spirito con gli atroci ricordi della guerra.


Sessantacinque anni dopo i fatti narrati, il ferro di Bugno - dopo un lunghissimo periodo d’oblio - è ritornato alla luce e ha preso posto sulla scrivania di chi scrive, con la malinconica funzione di fermacarte.
E quando lo sguardo cade su di esso, dolcissimi ricordi e ad un tempo terribili fantasmi mi sopraffanno mentre le brume di una nostalgia sottile e implacabile struggono il mio tempo.

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