Per questa Italia ipocrita ci vorrebbe la dignità del Conte di Montecristo

Coraggio e disinteresse contro i maneggi, i compromessi al ribasso, la politica meschina

Per questa Italia ipocrita ci vorrebbe la dignità del Conte di Montecristo

Ah, se il conte di Montecristo fosse fra noi! Quanti teoremi giudiziari smonterebbe, quante Finanziarie aggiusterebbe, quante finte facce della politica smaschererebbe... Hai voglia a insistere sul «Paese normale», sulle virtù della moderazione, sulla serietà dell'esecutivo, sulla imparzialità della magistratura. Basta che dallo schermo ti piombi in casa Edmond Dantès in veste di vendicatore e subito ti accorgi che la vita vera è quella lì, amori e odii, passioni e rinunce, vendette e ricompense, parole date e offese ricevute.

Dicono: ma allora, vuoi il ritorno allo stato di natura, all'uomo che si fa giustizia da sé, all'avversario trasformato in nemico da abbattere... Non ciurliamo nel manico, allo stato di natura ci siamo già, basta intendersi sulla parola: vecchi contro giovani, garantiti contro non garantiti, indigeni contro immigrati. Abbiamo l'ingiustizia fai da te, con i suoi tempi biblici, gli abusi della legge, lo scempio del più debole. E quanto al rispetto dell'altro, di chi la pensa diversamente, è questione di carità pelosa: se «l'altro» non si adegua lo si sega, e poi si fa anche gli sdegnati, un po' costernati: non rispondeva al telefono, non si faceva trovare, difendeva i suoi interessi, non voleva ragionare Nella società del politicamente corretto trionfa l'ipocrisia e si falsano i sentimenti, si finge la bontà e si persegue la cattiveria. Col risultato che tutto si annacqua, sfugge, si stinge e si restringe: il baciapile democristiano di ieri diviene il garante della Costituzione dell'oggi, il trinariciuto un libero pensatore, il portaborse un pilastro delle istituzioni, Alessandro Baricco uno scrittore.

Evviva Alexandre Dumas, allora, genio assoluto della letteratura che aveva capito tutto. La monarchia meschina e vanagloriosa di Luigi Filippo, il Re tronfio e borghese del suo tempo, non lo appassionava: con il conte di Montecristo la fustigò e per la trilogia dei moschettieri cercò rifugio nella Francia del Seicento dove si intrigava e si soffriva ma, vivaddio, soffiava la grandezza e il senso dell'onore. Parole vuote per l'Italia, dove la storia ripetendosi finisce in farsa. La prima Repubblica era già cadavere, ma a forza di belletti e rossetti l'hanno tenuta in piedi: perde pezzi, ma ci si ostina a mandarla avanti. S'invoca l'emergenza, si grida all'urgenza, ci si accontenta della sussistenza.

Una nomenclatura che non vede al di là del proprio naso concentra i suoi sforzi in una guerra intestina: D'Alema al posto di Prodi, Cossiga al posto di Bertinotti, Scalfaro al posto di sé stesso... È la via italiana alla stabilità. La cucina della politica da noi è sempre più fatta di avanzi.

Dumas ci ha insegnato: l'inciucio non paga, il tradimento va punito, la lealtà va premiata. Non pensate che siano romanticismi, fisime da intellettuali. Non fatevi ingannare dal nichilismo straccione di chi fa di tutto un mazzo e ti dice che il mondo è sempre andato così, che i ladri e i corrotti la sfangano comunque, gli incapaci governano, i mascalzoni prosperano e quindi non bisogna prendersela più di tanto, anzi, conviene approfittarne. Parlano così perché sguazzano nei bassifondi della mediocrità e pensano che quello sia il salotto dei potenti. Ma se si guarda all'indietro si vede che la storia ingrana la marcia delle realizzazioni allorché si incarna in un progetto, modella una civiltà, sceglie dei protagonisti coerenti con l'uno e con l'altro, alfieri di un'idea e non di un privato tornaconto. È tipico delle età di decadenza stare a sottilizzare, a teorizzare, a trovare qualsiasi giustificazione, a esaltare qualsiasi mediazione. Quando l'unico obiettivo è durare, ogni elemento di conflitto va smontato, ogni asperità levigata, ogni compromesso perseguito. Si fa la voce grossa se qualcuno minaccia di sconvolgere lo status quo, e ci si coalizza per blandirlo prima, impaurirlo poi. Se è il caso si può essere anche brutali, ma senza dignità, è la forza che nasce dalla debolezza.

Bisogna stare con Dantès, contro i maneggi dell'arrivista Danglars che per cupidigia sparge veleno e costruisce le sue fortune infamando chi lo può ostacolare. Con Dantès contro l'infame giudice Villefort, l'angelo sterminatore della giustizia asservita all'ambizione personale e politica. Con Dantès contro il signore di Morcerf, traditore di tutti, anche del suo onore. Bisogna stare, se è il caso, con il visconte di Bragelonne, quest'altro dumasiano monumento letterario alla nobiltà della sconfitta, alla fierezza del comportamento allorché la vittoria è solo sopraffazione e ha in sé il germe che la divorerà. Si soffre, ma alla fine si è ricompensati. È il trionfo della cavalleria d'animo sulla bramosia di contare.

Bisogna leggere Dumas per capire che la commedia umana è fatta di rinunce e successi, fedeltà e tradimenti, ideali e compromessi, premi e punizioni. Si può scegliere l'una o l'altra parte e recitarla di conseguenza. Non è lecito però mischiarle. Siamo stanchi di boiardi che sembrano parroci, politici che sembrano questurini, magistrati che sembrano gruppettari, postcomunisti che sembrano democristiani...

Rivogliamo i caratteri di una volta, quelli che Dumas aveva dipinto così bene e che oggi ci si affanna a nascondere nel gioco delle convenienze. Un po' di coraggio che diamine, anche il male ha il suo fascino. Purché non se ne vergogni.

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