Sono rari i romanzieri che si lasciano tentare dalla poesia pura: di solito si sgravano del proprio appetito poetico con qualche volo lirico allinterno di una narrazione, e la cosa finisce lì. Per questo quando uno di loro pubblica una raccolta poetica, il lettore viene preso da un leggero sconcerto: «Ma come? Allora in mezzo a tutta quella prosa cera un poeta? Uno che anziché capitoli e personaggi voleva segretamente allineare rime e versi?».
Il caso di Michele Mari è emblematico: autore delle lucide, a tratti gelide o sperimentali trame di Tu, sanguinosa infanzia, Io venia pien dangoscia a rimirarti, Tutto il ferro della torre Eiffel, La stiva e labisso e del classicheggiante Verderame, a un certo punto due anni fa è uscito - nella «bianca» dellEinaudi, tra maggiori collane di poesia del nostro panorama editoriale - con Cento poesie damore a Ladyhawke. Se potete, fate una piccola inchiesta tra coloro che lhanno letto. La risposta sarà di frequente la stessa: «Era da molto tempo che la poesia italiana non mi faceva versare lacrime».
Infatti, il libro è un autobiografico e straziante - sì, straziante - canzoniere su un amore mancato, sul sentimento dellesclusione e del rifiuto, su speranze disattese ma pur sempre vive, troppo vive: «Se fin dallinizio mi avessero informato/ che dopo più di trentanni/ senza aver niente in cambio/ ancora ti avrei amata/ avrei risposto/ logico e piano, sir». Tutta la raccolta procede così, tra la dipendenza damore e una amarissima solitudine che certo viene da lontano, dallinfanzia, si direbbe. Fin quasi a una resa finale, per nulla consolatoria: «Verrà la morte e avrà i miei occhi / ma dentro / ci troverà i tuoi».
Che sguardo poteva dunque dare alla città di Milano, questo poeta-romanziere che vi è nato e cresciuto e che ancora oggi vi lavora? «Uno sguardo di angoscia - ci racconta Mari- ma probabilmente sarebbe stato lo stesso con qualsiasi altra città. Da bambino andavo in vacanza sulla costa lombarda del lago Maggiore: la vecchia casa di famiglia, pur malinconica, la stessa che poi è finita trasfigurata in Verderame, era per me un anti-Milano, un anti-caos dove mi trovavo di gran lunga meglio che in città, dove invece passavo dieci mesi allanno di incubo. La mia infanzia solitaria è tutta racchiusa in quella mezzaluna che da Sempione e piazzale Baracca converge verso il centro. Una micro-Milano. Ancora oggi uscirne, spingermi magari fino a piazzale Loreto, significa arrivare in unaltra città, più esotica».
Forse è proprio laver vissuto in una Milano così piccola e limitata eppur centrale che ha dato a Mari quello sguardo straniato, disilluso sulla metropoli, quasi fosse una specie di flâneur in sedicesimo, più simile a quel Walter Benjamin che si aggira nel suo Tutto il ferro della torre Eiffel che allancora roboante Baudelaire. «Ladolescenza, continua Mari, lho scavalcata senza viverla, è come averla vissuta in una baita isolata in centro a Milano. Solo tardi cominciai ad andare per cinema e musei. Poi mi sposai, diventai professore di letteratura italiana alla Statale, dove lo sono ancora, divorziai, mi risposai, divorziai di nuovo. Sullo sfondo di tutte queste vicende, la stessa Milano della mia infanzia: quella di Magenta, della Vercellina, del parco Solari, della Darsena. E, volendo, anche un po di Roma. Per quindici anni ho fatto avanti e indietro tra Milano e Roma, a trovare mio figlio quasi tute le settimane. Ora lui è adolescente e anche Roma ha perso il suo iniziale esotismo. Quindi ritengo in qualche modo riequilibrato il rapporto tra le due città, sebbene su Milano abbia scritto anche un libro, mentre su Roma no».
Il libro in questione è Milano fantasma, pubblicato dalla EDT e illustrato dal pittore Velasco Vitali. «Allinzio ero riluttante, dice Mari. Dichiarai alleditore che avrei raccontato della città tutto il male possibile. Poi, accadde limpensato: mi soffermai sui vecchi cinema oggi scomparsi, sui fatiscenti depositi dellAtm, sui teschi di San Bernardino alle Ossa, e mi accorsi che Milano aveva una sua bellezza alternativa al Duomo e alla Scala, una bellezza nascosta, a frammenti, che va rintracciata quasi con attenzione filologica. Una bellezza non omogenea, tipica di questa città che non fu, come Roma, protetta durante la Seconda guerra e fu molto bombardata. Dalle parti di corso Italia o di Missori vi è tutta unintermittenza di case antiche e moderne, a volte nel giro di pochi metri, a seconda di come son cadute le bombe. Questo crea una discontinuità che a volte esaspera. Per non parlare delle ricostruzioni di piazza Diaz o San Babila».
Tuttavia la Milano che appare a scorci in Cento poesie damore a Ladyhawke è di una bellezza struggente: «Se i fantasmi si aggirano implacati/ sul luogo delloffesa/ dopo la mia morte/ cercate/ nelloperosa città di Milano/ in via della Commenda/ al numero civico...» È il civico del liceo Berchet, dove il protagonista incontra la donna che non smetterà di amare e che ritroverà anni più tardi: «Dal mio banco al tuo/ cerano tre metri/ che non ho mai percorso/Per quel peccato originale/ ora salgo su tutti i ponti del mondo...»
«Ho dovuto eliminare dal libro alcuni riferimenti topografici troppo precisi, per non rendere identificabile Ladyhawke, che è sposata. Milano è stata davvero un teatro comune per la nostra storia virtuale.
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