Cultura e Spettacoli

Questi scrittori sono meglio della Kidman

L’altra sera al cinema, quando i 1.500 capi di bestiame di Lady Ashley sono saliti finalmente sulla nave che li aspettava a Darwin, incitati dalle urla mandriane dello stanco ma fascinoso Hugh Jackman, non si era nemmeno al secondo tempo di Australia. Eppure in cuor suo lo spettatore già commemorava la dipartita del personaggio principale del film: il «vuoto australe» - quell’ipnotico, inquietante paesaggio che il gruppetto di cowboy aveva attraversato per rispettare la parola data - era ormai alle spalle, ormai fuori scena, fuori dagli occhi e dal cuore, pronto a essere riempito con una qualsiasi storiella hollywoodiana, come l’inqualificabile secondo tempo ha poi avuto premura di fare, innanzitutto radendo la barba a Jackman, che ha preso a sorridere imbarazzato a tutti e a ridurre le dosi di rum Poor Fella. Che débâcle.
Perché è accaduto? Per una svista artistica. Quando la Natura è troppo incommensurabile e misteriosa, come ancora è quella australiana, e crea troppo sgomento, se ci si ostina a rinchiuderla in patinati spottini turistici per il Quinto continente essa si vendica distribuendo il ridicolo tra i fotogrammi, sotto gli inconsapevoli occhi del regista. Accade anche in letteratura.
Detto questo, il 2009 è decisamente l’anno dell’Australia. Lo si leggeva negli occhi di Nicole Kidman. Nei gesti grezzi di Hugh Jackman (però Richard Chamberlain era altra cosa. Oh. La cara vecchia guardia... ). Lo si legge pure nelle parole del regista Baz Luhrmann, lo stesso di Moulin Rouge e dello struggente Romeo+Juliet (adesso non mi dite che non ricordate il calzino bianco di Leonardo di Caprio). E lo stesso di Australia: «Un kolossal per tutte le età, ha spiegato Lurhmann. Una grande torta coperta di panna con un tocco di amaro nascosto all’interno». La panna, scucchiaiamocela tranquilli al cinema: è montata alla perfezione.
Ora, invece, dedichiamoci all’amaro: cioè alla strana, a tratti angosciosa letteratura di quello che è stato definito, non a torto ma con una certa esagerazione, «il Paese del vuoto, la nazione dove nulla è mai avvenuto» e anche «una terra di passioni, odio, amore, terrorismo, rapimenti di bambini, eserciti segreti, conflitti di classe e di religione, sempre sull’orlo della ribellione o della guerra civile».
Si parte nientemeno che con un Nobel dimenticato, Patrick White, il maggior romanziere australiano, il più complesso, tormentato e visionario; creatore di Sarsaparilla, sobborgo di Sydney dove si muovono i suoi personaggi intagliati in una prosa che potremmo definire cubista. Figlio della buona borghesia, i genitori l’avrebbero voluto jackaroo, cioè aspirante proprietario di terre e di bestiame, ma il ragazzo preferì Londra, la letteratura, il teatro, l’omosessualità. Tornato in patria nel 1946, divenne allevatore di cani schnauzer e dieci anni dopo pubblicò L’esploratore, seguito da I passeggeri del carro. Libri da leggersi, poiché, come specificò il comitato del Nobel assegnandogli il premio nel 1973, «creano un’arte narrativa epica e psicologica che introduce un nuovo continente in letteratura». Un continente reale, ma anche metaforico, ardito, nervoso: White è davvero tra i grandi più sottovalutati e meno letti del secolo scorso. La sua sorte editoriale in Italia è inesistente: eccetto la novella La mano di una donna (Capelli editore), di lui non si trova nulla.
Va meglio con Christina Stead, quasi coetanea di White, apprezzata da Saul Bellow (forse per la tradizionalità della sua prosa, molto british) e autrice di Letty Fox, romanzo sulla formazione tardiva e logorroica di una ventiquattrenne, di Il piccolo hotel, satira cosmopolita sui pigri antieroi di un Dopoguerra trascorso tra gite sul lago Lemano e idilli alberghieri, e di L’uomo che amava i bambini, compassionevole racconto sulla banalità del male in famiglia. Li trovate tutti per Adelphi. Ma a questo punto, perché non dare un’occhiata alla produzione di Joan Lindsay, vissuta nello stesso periodo, moglie di un Sir e scrittrice famosa con Picnic a Hanging Rock (Sellerio), da cui il regista (sempre australiano) Peter Weir trasse il suo capolavoro sospeso e inquietante?
Non fu l’ultima volta in cui l’Australia vide intrecciarsi cinema e letteratura, che in questo continente sono quasi gemelli siamesi: da Oscar e Lucinda di Peter Carey, dieci anni fa Gilliam Armstrong trasse un film con Ralph Fiennes e Cate Blanchett. È la storia picaresca di un seminarista con la passione per il gioco d’azzardo e di una giovane ereditiera, entrambi immersi in una fitta trama di mani di poker, outback e una molto desiderata chiesa di vetro. Carey è tra i più celebri autori australiani viventi: l’unico (l’altro è il sudafricano Coetzee) ad aver vinto il Booker Prize due volte. Di lui possiamo leggere La ballata di Ned Kelly (da cui fu tratto un film con l’australiano Heath Ledger, non ancora Brokeback Mountain), l’insolito Estasi e la meditazione in forma di romanzo Falso d’autore, tutti per Frassinelli, nonché Furto. Una storia d’amore, per Feltrinelli, in attesa che quest’ultimo editore mandi in libreria a fine gennaio La sua identità illegale.
Accanto a Carey, più scabro e meno giocoso, c’è David Malouf, con i suoi evasi alla macchia (i bushrangers, figura topica della narrativa del quinto continente) di Conversazioni a Curlow Creek, il suo sentito, ancestrale sradicamento, raccontato nel celebre Ritorno a Babilonia, e i racconti «di passaggio» (dal bene al male, dalla solitudine alla compagnia, dalla giovinezza alla vecchiaia) racchiusi in Verso mezzanotte, tutti e tre per Frassinelli. Cui aggiungere, per Fazi, i libri di Tim Winton, due generazioni più vecchio di Malouf, nato nel 1960 a Perth e arrivato al successo con I cavalieri, seguito poi da Cloudstreet e Dirt music: il genere è quello scanzonato, ma con un occhio morale al paesaggio e alla natura.
Ecco poi due romanzi oggetto di un piccolo culto, E morì con un felafel in mano di John Birmingham (Fandango) e Shantaram (Neri Pozza), epico libro di fuga e confessione del realmente evaso Gregory D. Roberts. In uscita all’inizio di febbraio per Mondadori, troverete invece La stanza degli ospiti di Helen Garner, autrice rimasta in silenzio creativo per dieci anni, nonostante Monkey Grip, romanzo del 1977, l’avesse fatta avvicinare dalla critica a Carey. Mentre già sugli scaffali potete trovare l’ultimo libro di lei, un sequel - dopo i tanti successi nel romanzo storico - di Orgoglio e pregiudizio. Lei. Ricordate? «Una leggenda narra di un uccello che canta una sola volta nella vita. Da quando lascia il nido, cerca disperatamente un grande rovo per precipitarsi sulla spina più lunga e affilata. Mentre sta morendo, però, vince il tormento atroce della sofferenza e supera con la sua melodia l’allodola e l’usignolo. Il mondo intero si ferma e tace per ascoltarlo e Dio sorride... Perché alla perfezione si arriva soltanto a prezzo di grandi sofferenze».
Eh, no. Se tutto ciò non vi dice nulla, io questa volta dissento, getto la spugna, mi intirizzisco, mi aggranchio, vado a cercare Colleen McCullough - l’autrice di Uccelli di rovo - laggiù sull’isola di Norfolk poco lontano dalla sua nativa e amatissima Australia -, e le dico che un cuore palpitante vale come il due di picche a briscola, e che i romanzi rosa e anche quelli non rosa sono tutti una menzogna per signorine che, peraltro, hanno la memoria corta si scordano gli incipit, gli incipit palpitanti.

Palpitanti come il primo tempo di Australia, o come quando, anziché riempire il vuoto, ce ne si lascia ammaliare.

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