Con questo governo il Paese è più forte Avanti con le riforme

L’ultima volta che sono venuto qui al Meeting era l’agosto del 2007. Si parlava della mia azienda Eni e del petrolio, il cui prezzo saliva giorno dopo giorno sostenuto da un mondo in pieno boom. Si parlava anche della nostra Italia, incapace di crescere, malata cronica in un mondo in piena salute, e delle molte patologie per le quali la nostra economia soffriva, più d’altre, dell’impatto della globalizzazione. Sono passati tre anni ed è cambiato tutto. La crisi si è abbattuta sull’Occidente, prima sugli Stati Uniti e poi sull’Europa, colpendo banche, risparmiatori, imprese, lavoratori ed infine i bilanci degli Stati. Contro tutti i pronostici, il nostro Paese ha retto bene alla crisi. A cosa dobbiamo questa performance insperata? La dobbiamo a tre caratteristiche della nostra economia da sempre sottovalutate: la «ricchezza» delle nostre famiglie fatta di risparmi monetari e di diffusa proprietà della casa; il «provincialismo» delle nostre banche che le ha tenute al riparo da quelle disastrose scorribande finanziarie, che sono state il detonatore della crisi; e infine la «manifattura». Questa caratteristica tipica della nostra economia ci fa grandi produttori ed esportatori di merci e non solo venditori di servizi. E poi ce la stiamo cavando meglio del previsto perché abbiamo pescato un jolly. L’Italia è entrata nella crisi internazionale con una maggioranza di governo forte che ha sostenuto una politica economica severa e senza tentennamenti. Il ministro Tremonti in questi due anni difficili ha fatto le cose giuste e, soprattutto, ha evitato di fare le cose sbagliate che tanti gli suggerivano.
Il combinato delle caratteristiche della nostra economia e della gestione efficace della crisi ha fatto sì che nel gregge dell’Europa, non solo non siamo più noi la pecora nera, ma che anzi siamo nel gruppo di testa, solo pochi passi dietro alla bianchissima pecora tedesca sempre più virtuosa.
Ora che forse il peggio l’abbiamo alle spalle, dobbiamo ricominciare a crescere affrontando la concorrenza globale e le sfide di quei paesi, Cina, India, Brasile, che guadagnano ogni giorno nuove posizioni nell’economia mondiale.
Nel «dopo crisi» noi italiani siamo piazzati bene, meglio di quei paesi che ne escono con pesanti deficit ai quali non erano abituati, famiglie indebitate fino al collo, sistemi bancari azzoppati e centinaia di migliaia di case nuove invendute che fanno presagire settori immobiliari in crisi per molti anni ancora. Per l’Italia e per Eni, che è la più grande azienda del nostro paese e che vuole continuare a crescere nel mondo, la crisi rappresenta un’opportunità da non sprecare. É l’occasione irripetibile per sottoporci ad un check-up, porre rimedio alle croniche inefficienze del nostro paese, per cambiare in meglio, stimolati, non spaventati dalla concorrenza globale che dobbiamo affrontare. E qui mi sembra molto appropriata la riflessione di Einstein che ho visto riportata nei messaggi del meeting, «una crisi può essere una vera benedizione per ogni uomo e per ogni nazione, perché tutte le crisi portano progresso».
Possiamo ricominciare a crescere. Dobbiamo solo essere capaci di toglierci di dosso gli ultimi residui di quella cultura egualitarista, figlia del ’68, e sviluppatasi nell’economia ancora chiusa degli anni ’70 e ’80, che voleva livellare tutti verso il basso e che, per 30 anni, ha reso quasi impossibile premiare i migliori, penalizzare i furbi, mettere al centro della nostra società l’individuo e la famiglia per costruire quell’Italia che tutti vogliamo.
Cominciamo cambiando la scuola e l’Università. Per troppi anni la scuola è stata soprattutto lo strumento per dar lavoro ai professori. Abbiamo costruito una scuola che promuove tutti, penalizzando i migliori e che, per di più, come abbiamo recentemente appreso, discrimina con voti fasulli gli studenti del Nord del Paese.
E che dire dell’Università? Una pletora di sedi universitarie, con innumerevoli corsi di laurea, creati senza testare il mercato del lavoro per il quale dovrebbero essere disegnati. In Eni assumiamo circa 1.500 laureati all’anno. Siamo, credo, l’azienda italiana che ne assume di più. Una considerazione generale: i giovani, laureati fuori dall’Italia, sono meglio preparati per il lavoro, molto meno «attaccati al posto» e più disponibili alla vita spesso avventurosa, ma di sacrificio, che è parte essenziale della carriera Eni. Dobbiamo poi affrontare una volta per tutte il problema di un’Amministrazione Pubblica costosa, inefficiente, del tutto inadeguata a quello che serve per competere nell’economia globale. Non possiamo più trasformare l’amministrazione pubblica, soprattutto locale, in un postificio dove, al privilegiato che ne fa parte, non si chiede l’efficienza, e spesso nemmeno la presenza. Non ho mai capito perché il barista svogliato o assenteista venga licenziato senza che ciò desti scandalo, mentre il dipendente pubblico resti un intoccabile qualunque cosa faccia. Il risultato? Una spesa pubblica elevata e crescente e servizi per i cittadini e per le imprese inadeguati.
Eni opera in 70 paesi tra cui molti sono considerati terzo mondo. Posso dire che, per noi, e siamo italiani, i rapporti con le nostre Amministrazioni locali, soprattutto quelle del Meridione, sono tra i peggiori che abbiamo.
Per uscire vincenti dalla crisi dobbiamo toglierci di dosso questa burocrazia costosa ed inefficiente che protegge i fannulloni penalizzando chi lavora seriamente. Se la nostra amministrazione pubblica rappresenta l’esempio più evidente di quel garantismo malsano teorizzato e tradotto in norme e accordi sindacali negli anni ’70, non si può dire che il mondo delle imprese ne sia immune. Per competere sui mercati mondiali, continuando ad investire e produrre in Italia, le nostre imprese, e noi di Eni per primi, dobbiamo essere efficienti e flessibili, con uomini e donne incentivati a dare il massimo.
Operiamo invece in un mercato del lavoro con regole lontanissime da quelle dei paesi con i quali competiamo, frutto di una stagione sindacale ideologizzata, regole che sembrano fatte apposta per proteggere chi non si impegna e per impedire di premiare merito e risultati.
Pensate che il tasso di assenteismo in Eni nel Mezzogiorno è più del doppio di quello che registriamo nei nostri stabilimenti nel Nord Italia, che pure, con quasi il 5%, hanno un assenteismo molto più alto di quello dei nostri stabilimenti in Centro Europa. Tassi di assenteismo stabilmente superiori al 10% vogliono dire un’organizzazione inefficiente, più ore di straordinario, costi non competitivi, meno propensione ad investire proprio in quelle aree del nostro paese che avrebbero bisogno di nuova occupazione.
Se esitiamo noi di Eni o esita Fiat ad investire nel nostro Mezzogiorno, come possiamo sperare che lo facciano le multinazionali straniere? Fatico a credere che in Puglia o in Sicilia ci si ammali davvero il doppio di quanto ci si ammala in Lombardia o il triplo che in Francia e in Germania. Siamo da anni di fronte ad una truffa collettiva, che i sindacati locali non contrastano, tollerata, se non coperta, da chi è responsabile delle visite fiscali che noi chiediamo sistematicamente con risultati scoraggianti.
Questi furboni assenteisti, artisti della finta malattia e dello straordinario a rotazione, danneggiano chi lavora seriamente, impediscono la creazione di nuovi posti di lavoro e minano la competitività dell’Italia nel mondo globale. Il fatto che questa sia una situazione sofferta non esime dall’affrontarla. In un mondo globalizzato, nel quale nascono ogni giorno nuovi concorrenti, non si può difendere l’occupazione per decreto. Mantenerla ad ogni costo, anche quando questo vuol dire fabbricare prodotti cari e invendibili, è una strategia destinata a fallire perché, per un’impresa, perdere la capacità di competere vuol dire, alla lunga, perdere tutti i posti di lavoro.
D’altronde, il sistema supergarantista creato negli anni ’70 con lo statuto dei lavoratori porta le menti imprenditoriali del nostro paese, noi inclusi, ad interrogarsi non solo su come accaparrarsi giovani di talento ma, su come ritardarne l’assunzione a tempo indeterminato: di ogni neo assunto non si valutano solo le potenzialità, ma il costo di 40 anni di stipendi visto che si dovranno pagare fino alla pensione.
Questo mercato del lavoro ingessato va cambiato e subito per renderlo simile a quello dei paesi con i quali competiamo. Mi piace immaginare un’Italia nella quale un’azienda come Eni può trovare tutti i talenti dei quali ha bisogno: ragazzi preparati, competitivi, grintosi. Pronti a spostarsi, a cambiare Paese, a mettersi in gioco per avere successo nella competizione globale. Un’Italia in cui aziende internazionali ed italiane, inclusa Eni, fanno a gara per investire, soprattutto al Sud, perchè lì si lavora con passione ed impegno, perchè uomini e donne sono capaci ed efficienti, perchè l’amministrazione pubblica facilita in ogni modo l’attività delle imprese. Un paese in cui i giovani possano trovare lavoro in un ambiente che stimoli l’eccellenza, premi i risultati e faciliti il cambiamento, stimolando quella creatività, gioia e dignità che, come ricordava Giovanni Paolo II, sono proprie dell’attività lavorativa.

Quest’Italia può crescere e vincere la sfida della competizione globale. La crisi ha messo in luce le nostre qualità. Il «dopo crisi» ci dà l’opportunità di fare ciò che sappiamo deve essere fatto. Non sprechiamola.
*Amministratore delegato del gruppo Eni

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