Venezia - Saro è un mafioso piccolo piccolo. Che non vuole neanche diventare tanto grande. Al bel personaggio interpretato da Luigi Lo Cascio in Il dolce e l'amaro di Andrea Porporati, secondo e atteso film italiano in concorso, gli bastano e avanzano i guadagni delle rapine, del pizzo, delle esecuzioni e quel tipo di rispetto che viene dato per timore e paura. A lui va bene così, la dimensione mafiosa gli sembra naturale. Neanche la fidanzata (una conturbante Donatella Finocchiaro) riesce a fargli capire che esiste un'altra vita. Solo dopo un lungo percorso di (de)formazione, complice il sangue degli uomini che fatica a lavarsi, si lascia andare nelle mani amiche del magistrato interpretato da Fabrizio Gifuni, ex compagno di giochi quando erano piccoli.
Accolto tiepidamente alla proiezione dei critici, un po' più calorosamente a quella del Palalido, Il dolce e l'amaro arriva alla Mostra, ma anche nelle sale da oggi distribuito da Medusa, nel momento in cui il dibattito sul cinema italiano è d'attualità sui quotidiani come in televisione e mentre al Lido si percepisce un'aria d'insoddisfazione per i primi due film italiani passati in concorso. «Sono felice di essere qui ma sono anche un po' stordito per la grande responsabilità del concorso. Ma è il dolce e l'amaro della vita, e va bene così. Per quanto riguarda il cinema italiano credo che l'unico nostro problema sia riuscire a recuperare il rapporto con il pubblico interrottosi per vent'anni anni in cui non si è riusciti a raccontare i velocissimi cambiamenti del nostro Paese», confessa Andrea Porporati a sei anni dal suo primo lungometraggio, il premiato Sole negli occhi sempre con Gifuni.
E se l'amministratore delegato di Medusa (produttrice del film insieme a Francesco Tornatore) Giampaolo Letta si dice contento che il film venga definito uno spot antimafia tanto da annunciare proiezioni nelle scuole e nelle università, il regista, autore della sceneggiatura di La piovra 7, 8 e 9, tenta un discorso più articolato: «Non è tanto un film sulla mafia ma su un personaggio che s'incammina su quella strada. Ci interessava la scelta che quest'uomo ha fatto per rinunciare all'amaro della vita e prendere solo la parte dolce. Rinuncia alla sua identità in cambio della sicurezza e di una certa posizione».
Il percorso di formazione del personaggio di Luigi Lo Cascio è tenuto insieme da un sottile filo rosso che lega i momenti cruciali della sua vita, dall'iniziazione in chiave un po' grottesca, all'acqua e alla terra con cui cerca di lavarsi le colpe, alla pentola e al fuoco su cui i mafiosi preparano il prediletto sugo di pomodoro, fino al sangue, tanto sangue.
Spiega il regista: «Sono simboli archetipici legati a una prima parte di racconto un po' favolistica che segue il personaggio come un eterno adolescente. Quando il sangue di una vittima gli si appiccicherà addosso il film diventa realistico seguendo la maturazione del personaggio fino al pentitismo».
Ed ecco entrare in scena il magistrato che lungo il film è lo specchio di quello che Saro sarebbe anche potuto essere, al bivio della vita. Un magistrato che puntualmente viene assassinato richiamando la stagione delle stragi di mafia.
Racconta Fabrizio Gifuni: «Si potrebbe pensare a un personaggio ispirato a Borsellino. In realtà non mi sono posto un modello preciso quanto piuttosto il tentativo di creare una sintesi dei tanti servitori della mafia».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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