Le ragioni del flop: pochi iscritti, tanti pensionati

da Roma

Ogni volta che vengono resi pubblici i dati sulle iscrizioni ai sindacati, la prima cosa che dicono i segretari generali è: «Quest’anno calano i pensionati con la tessera, aumentano gli attivi e i giovani». Tendenze, più o meno micro, che i vertici sindacali, evidentemente, hanno tutto l’interesse a mettere sotto i riflettori per allontanare l’ombra della malattia più grave per le confederazioni dei lavoratori: l’invecchiamento degli iscritti. Che per Cgil, Cisl e Uil non è un problema di look. Significa non avere più presa su chi dovrebbero rappresentare. Eppure i dati parlano chiaro. Nella Cgil i pensionati sono quasi 2,9 milioni su 5,6 milioni di iscritti. Più della metà. Proporzioni più o meno rispettate nella Cisl dove sono 2,2 su 4,4 milioni di iscritti. Un po’ meno nella Uil, con due milioni di iscritti e 560mila pantere grigie.
Qualche recupero, insomma, non basta a intaccare una proporzione che fornisce buoni argomenti a chi sostiene che ormai sia minata alla base la ragione stessa dell’esistenza dei sindacati. Pochi iscritti, un tasso di sindacalizzazione basso per un Paese in cui le confederazioni hanno un notevole peso politico. E un armamentario inadeguato ad affrontare le nuove sfide. Tesi, quest’ultima, sostenuta venerdì da Luca Cordero di Montezemolo. Il presidente uscente di Confindustria per la verità è andato oltre e ha accusato i sindacati di essere una «casta» che non riesce più a dare risposte ai loro stessi rappresentati.
Valutazioni strettamente legate all’analisi del voto: alla scomparsa della sinistra radicale e alla vittoria del centrodestra, nettissima al Nord. La fine di un modello: quello antagonista, politicizzato, inflessibile nella difesa del contratto nazionale e ostile a ogni riconoscimento del merito. E in filigrana sembra di vedere i dati di Federmeccanica sul tasso di sindacalizzazione del settore metalmeccanico in calo dal 39 al 36 per cento dal ’95 al 2001 per poi risalire un po’ nel 2005. Il tutto mentre negli stessi anni le ore di sciopero pro capite, indicatore del livello di conflittualità, sono passate da 2,9 a 14.
Poca presa sulle tute blu, quindi, che sono la categoria simbolo del sindacalismo. E che, già da qualche anno, rappresentano il bacino elettorale più interessante per le forze politiche che per tradizione sono meno vicine al sindacalismo tradizionale. A certificare questa tendenza, già alle scorse elezioni politiche, era stato l’Ires, istituto di ricerca della Cgil guidato da Agostino Megale in un’indagine dalla quale emergeva che il 45,7 per cento degli operai del Nord, aveva votato per il centrodestra, mentre il centrosinistra - che vinse per poco le elezioni - si fermò al 37,5 per cento. Scenario che si è rafforzato quest’anno, dando al voto operaio una coloritura sempre più verde-Carroccio.
Fenomeno che in realtà la sinistra radicale aveva ben presente. A partire dal candidato premier Fausto Bertinotti, che nelle ultime fasi della campagna elettorale spiegava quanto fosse difficile comunicare con iscritti alla Fiom-Cgil, sindacato da sempre vicino alla sinistra radicale, che hanno in tasca anche la tessera della lega.
Difficile dire se quella tra sindacato e simpatie politiche per il centrodestra, sarà una convivenza pacifica. Cisl e Uil assicurano di sì, e vantano iscritti equamente ripartiti tra gli schieramenti politici, oltre a una precedente esperienza di collaborazione con il governo Berlusconi. Il Patto per l’Italia fu sottoscritto dalle due confederazioni dopo un traumatico strappo con la Cgil. A sinistra, la Cgil affronta il fenomeno come un problema, un «segnale» di cui tenere conto, per usare le parole del segretario Guglielmo Epifani.
A rendere complicate le cose, si aggiunge il fatto che nei sindacati non solo sono forti le federazioni dei pensionati, il cui peso politico è comunque non determinante. Ma tra i lavoratori attivi sono soprattutto gli statali a fare sentire la loro presenza. Nella Cgil, con 586mila iscritti, sono la prima categoria e superano di molto i metalmeccanici. Importante anche la presenza nella Cisl e nella Uil.

Non che chi lavora nella pubblica amministrazione non sia da considerare un lavoratore «attivo». Difficile però pensare che sulla base di questi equilibri i sindacati siano pronti ad accettare tagli al costo dell’amministrazione pubblica.

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