Rapiti due militari italiani in Afghanistan

D’Alema in contatto con Karzai e la Rice Parisi: «Salvare le vite e proseguire la missione»

Spariti. Se siano stati sequestrati da una masnada di talebani,come è più che verosimile, o da una cosca di banditi di passo, in cerca solo di palanche, senza velleità politiche, non sappiamo. Sappiamo che mancano all'appello dal pomeriggio di sabato. Due militari italiani, due sottufficiali. «Due funzionari», si lascia scappare D'Alema, accreditando la voce, già filtrata da ambienti vicini alla Difesa, secondo la quale i due italiani («ma è prematuro parlare di sequestro», insisteva scaramanticamente il ministro prima di abbozzare di fronte all'evidenza) appartengono ai servizi d'informazione.
Faremo del nostro meglio per arrivare a una soluzione della vicenda, hanno giurato a D'Alema il presidente afghano Kharzai, il segretario di Stato Usa Condoleezza Rice e il ministro degli Esteri iraniano Mottaki.
«Salvare la vita dei due militari, nel perseguimento della missione» è invece l'auspicio del ministro della Difesa Parisi, che dando per scontato il «perseguimento» bacchetta sulle dita gli alleati ultrasinistri del governo che ad ogni occasione, e questa si profila perfetta, chiedono ossessivamente il ritiro dei nostri uomini dall'Afghanistan. Parisi «invita gli organi di stampa a seguire una linea di prudenza» perché, dice, «siamo di fronte a una situazione non ancora chiara che richiede da parte di tutti il massimo dell’attenzione e del rispetto dei fatti e delle parole».
I due sottufficiali italiani, accompagnati da un interprete e un autista (erano stati catturati anch'essi, ma in serata sono stati rilasciati; e il loro racconto servirà a fissare almeno qualche certezza, per capire la dinamica dell'agguato e il luogo in cui gli ostaggi sono segregati) erano in viaggio nel distretto di Shindand, nella provincia di Herat: un verminaio infestato da talebani e banditi senza collare vicino al confine con l'Iran dove il nostro contingente ha il suo principale acquartieramento (l'altro è nella capitale Kabul).
Che di rapimento si tratti non ci sono dubbi, secondo l'agenzia di stampa indipendente afghana Pajhwok, che cita fonti anonime della polizia. Gli italiani, si legge in un dispaccio troppo circostanziato per essere frutto di fantasia, sono stati rapiti dal mullah Akhtar Muhammad al posto di blocco di Khoja Hesah, tra Zer Koh e Azizabad, sulla strada principale del distretto di Shindand. Il mullah e la sua banda di scagnozzi avrebbero poi consegnato gli ostaggi al capoposto locale, il comandante talebano (che ha il titolo altisonante di maulvi: una sorta di capomandamento nella gerarchia dei fedeli islamici) Abdul Hamid Ishaqzai, che li ha portati nel distretto di Anardara, nella provincia di Farah.
Secondo un'altra versione, anche questa diffusa dalla stessa agenzia, i due «funzionari italiani» sarebbero stati presi in consegna da una «banda non identificatasi» che si sarebbe poi vantata del colpo messo a segno con un capo tribale della zona. Un altro «anziano» di Shindand ha detto all'agenzia afghana che gli stranieri, accompagnati da un interprete, viaggiavano su un'«auto privata da Farah ad Azizabad», il che conferma la versione fornita dal capo degli investigatori afghani, il generale Ali Khan Husseinzada.
Qualche motivo di speranza (nel senso che la vicenda si potrebbe chiudere in un arco ragionevole di giorni) viene da Danish Karokhel, direttore della stessa agenzia di stampa afghana che abbiamo citato qui sopra. «I talebani non c'entrano», giura Karokhel, che conosce bene i suoi polli. «Sono stati rapiti da una tribù locale. La politica, il fatto che si tratti di militari non c'entrano. Quelli vogliono solo soldi», giura il giornalista. Insorti, talebani sciolti e a pacchetti, cosche locali specializzate in sequestri a scopo di estorsione non mancano, nella provincia di Farah. Ne fecero esperienza, a loro spese, anche i due cooperanti della Ong francese Terre d'Enfance, rapiti in aprile.
Herat, nel quadrante occidentale dell'Afghanistan, è la sede del nostro contingente inquadrato nell'Isaf, la Forza internazionale d'assistenza per la Sicurezza guidata dalla Nato. Ed è lì, a Herat, crocevia di contrabbandieri d'armi e di trafficanti d'oppio, che abbiamo di stanza un distaccamento di unità speciali con compiti di ricognizione, perlustrazione e pattugliamento.

Appartengono a queste forze «speciali», gli italiani spariti? O erano «funzionari» dei servizi di supporto che indagavano sul traffico di armi nella zona a cavallo tra la provincia di Herat e di Farah? Sul punto, comprensibilmente, la Difesa tace, parlando di sottufficiali di «collegamento» tra militari e ambienti civili.

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