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Re Dollaro alle prese con l'economia di guerra

Dopo i petrodollari i petrorubli. La richiesta di Vladimir Putin (vi diamo i nostri idrocarburi solo se ci pagate con la nostra moneta) è nata dalla necessità di sostenere sui mercati il valore della valuta russa

Re Dollaro alle prese con l'economia di guerra

Dopo i petrodollari i petrorubli. La richiesta di Vladimir Putin (vi diamo i nostri idrocarburi solo se ci pagate con la nostra moneta) è nata dalla necessità di sostenere sui mercati il valore della valuta russa, messa a dura prova dalla guerra e da tutto quello che ne è seguito. Ma allo stesso tempo ha simbolicamente messo in evidenza che le guerre si combattono anche con le monete. E che anzi la moneta è una delle forme più efficaci di potere. In guerra e in pace.

Da questo punto di vista il mondo è da almeno un'ottantina d'anni saldamente unipolare: è il Re dollaro la spina dorsale degli scambi globali. «Attorno al biglietto verde gli Stati Uniti e l'Occidente hanno modellato un intero sistema finanziario dollarocentrico», spiega Fabrizio Pezzani, docente di Economia alla Bocconi. A mettere in discussione lo status quo oggi è la Russia, ma ad approfittare della situazione potrebbero essere i cinesi, gli unici che hanno mezzi e volontà per sedersi al tavolo con gli americani. E i vertici del Fondo Monetario, pochi giorni fa, hanno iniziato a parlare della nuova «frammentazione» del sistema valutario internazionale, con un possibile ridimensionamento del dollaro.

A cementarne il ruolo globale furono a suo tempo gli accordi di Bretton Woods del 1944, in cui si cercava di dare un ordine all'economia mondiale che stava uscendo dalla guerra. Le intese stabilivano una serie di rapporti fissi tra le singole valute e il dollaro e tra questo e l'oro. Per quasi 30 anni tutto filò liscio. Poi nel 1971 i sempre maggiori problemi di bilancio degli Usa, mandarono in soffitta le intese e gli stretti vincoli di cambio in vigore fino ad allora (vedi anche l'altro articolo in pagina, ndr). Il risultato fu un'epidemia di inflazione un po' dappertutto. «Da una situazione di politica monetaria che riusciva a dare stabilità, si è passati a una situazione di guerra finanziaria», sintetizza Pezzani.

REFERENDUM QUOTIDIANO

Anche senza rapporti fissi tra le varie valute, il dollaro non ha però perso il ruolo di moneta di riferimento. Anzi. Ogni giorno, in ogni parte del mondo, con una specie di quotidiano referendum dei mercati, milioni di operatori scelgono di regolare le proprie operazioni nella moneta americana. Lo stesso fanno le banche centrali quando accumulano riserve in dollari (vedi anche le cifre nel grafico). Pesano le dimensioni e la liquidità del mercato del biglietto verde, la forza dell'economia, la stabilità e la sicurezza del quadro istituzionale americano.

In pratica il dollaro funziona perché tutti sanno (fino ad oggi, almeno, è sempre andata così) che ci sarà sempre qualcuno che chiede dollari. E questo è anche il motivo per cui all'economia Usa sono consentiti «vizi» che nessun altro Paese sarebbe in grado di permettersi: per esempio deficit pubblici potenzialmente illimitati (c'è sempre qualcuno nel mondo che cerca titoli di Stato Usa per «parcheggiare» in modo sicuro i propri risparmi); oppure il fatto che gli Stati Uniti consumano regolarmente più di quello che producono (chi vende loro beni, come i cinesi, accumula riserve in dollari e ne è soddisfattissimo). Altrove queste cattive abitudini provocherebbero caos e svalutazioni, per gli Stati Uniti questo non vale. Valéry Giscard d'Estaing, tecnocrate destinato a diventare presidente della Repubblica francese, lo definì una volta «esorbitante privilegio», e da allora l'espressione è rimasta per definire lo status particolare della moneta americana.

Ad essa si è affiancata, in anni recenti e con un certo successo, l'euro, che ormai rappresenta oltre il 36% dei pagamenti internazionali. A frenare la moneta europea sono però una serie di elementi, a cominciare dal fatto che alla valuta non corrisponde un unico sistema-paese.

Così, come detto, buona parte del commercio internazionale si svolge in dollari. Accade per esempio con il petrolio che gli europei comprano dai Paesi arabi, anche se nessuna delle due controparti usa al proprio interno la valuta Usa. Questo ha conseguenze importanti. Visto che bisogna comprare e vendere dollari accade facilmente che si debba passare da una banca americana o da una banca che ha rapporti con l'America. Ed è per questo che le sanzioni Usa sono così efficaci e temute. Essere esclusi, in tutto o in parte, dal circuito del dollaro è una difficoltà in grado di condizionare pesantemente ogni sistema economico. La Russia ha iniziato a fare i conti con il problema dopo l'invasione dell'Ucraina nel 2014. Da allora ha cercato di ridurre la propria esposizione alla moneta americana, accumulando riserve in oro e altre valute e cercando di mettere da parte un «tesoretto» da usare in situazioni come l'attuale. Lo sforzo è stato (in parte) frustrato dal fatto che le riserve non vengono fisicamente trasferite da una banca centrale all'altra, ma restano in conti speciali nel Paese in cui si creano. Scoppiata la guerra in Ucraina i Paesi occidentali hanno congelato questi conti, dimezzandone l'ammontare.

L'obiettivo russo in questo momento è quello di ampliare la propria area valutaria convincendo altri Paesi a commerciare direttamente in rubli. Lo ha fatto nei giorni scorsi il ministro degli Esteri Lavrov in visita in India. Il vero rivale del dollaro però non è la Russia, che ha un'economia troppo debole per rappresentare una minaccia. A proiettare la propria ombra sul futuro dei mercati valutari sono piuttosto i cinesi. «Pechino non vuole certo scardinare il sistema basato sul dollaro, senza il quale non sarebbe diventata quella che è», spiega Alessia Amighini, docente di Politica economica all'Università del Piemonte orientale, che sul tema ha appena pubblicato un libro (Finanza e potere lungo le nuove vie della seta, Bocconi Editore). «L'obiettivo dei cinesi è quello di affiancare una propria area di influenza a quella degli americani».

IL PETROLIO DI PECHINO

L'ultimo colpo degli uomini di Xi Jinping è quello di aver convinto alcuni Paesi arabi esportatori di petrolio ad accettare pagamenti in renmimbi. «La cosa per certi versi più interessante e paradossale», aggiunge Alessia Amighini, «è che i cinesi vogliono favorire l'uso della loro moneta senza farla diventare convertibile». In pratica, mentre il dollaro o le altre monete occidentali possono essere liberamente scambiate sul mercato a valori stabiliti dalla domanda e dall'offerta, questo non accade per la moneta cinese visto che il governo di Pechino non vuole privarsi della possibilità di stabilire la sua quotazione rispetto alle altre monete. La strada scelta è quella di una serie di accordi di scambio («swap») con cui si mettono a disposizione dei diversi Paesi renmimbi con cui si possono regolare le operazioni commerciali e finanziarie bilaterali. Un accordo di questo tipo è stato concluso con la Russia, molti quelli firmati con piccoli Paesi. In questi casi «l'uso del renmimbi è perseguito in maniera coercitiva, per quanto indiretta, attraverso l'influenza economica che si traduce in potere politico di persuasione».

Ma c'è un'altra strada attraverso cui la valuta cinese potrebbe guadagnare spazio alla svelta anche a livello internazionale. «Pechino è all'avanguardia per quanto riguarda la moneta digitale sovrana», spiega la Amighini. Si tratta di moneta depositata in portafogli digitali (per esempio in dispositivi mobili) invece che in conti bancari, con transazioni che possono passare da un telefonino all'altro senza coinvolgere banche o carte di credito. «In Cina gli acquisti via dispositivo mobile sono già il 16% contro l'1% degli Usa, conclude Amighini.

Se Europa e America rimarranno a guardare, il futuro dei pagamenti via telefonino potrebbe passare proprio dalla moneta cinese.

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