la recensione/2

diFra le opere che fecero il Quarantotto, I Masnadieri di Giuseppe Verdi - rappresentati l’anno seguente in suolo straniero (Londra 1849) - hanno impresse le stigmate di quel tempo di grandi speranze. Per la rivolta contro una società ingiusta non c’era soggetto migliore del dramma di Schiller, che il librettista Andrea Maffei caricò di immagini gotiche ed espressioni canagliesche. Due fratelli, il malvagio Francesco Moor, e il bandito per necessità, Carlo, si scambiano invettive e cabalette frementi, mentre Verdi sfoga la sua rabbia di patriota deluso anche negli affilati interventi del coro virile (i masnadieri del titolo).
Il pubblico del Teatro di San Carlo di Napoli, che l’opera l’aveva ascoltata una volta sola al tempo della sua creazione, ha reagito con calore alla scarica di adrenalina impressa dal maestro Nicola Luisotti, appena designato direttore musicale del Massimo partenopeo, gagliardo nell’imprimere veemenza alle architetture ritmiche verdiane, cui auguriamo un felice cammino e maggiore riguardo all’invadenza fonica degli ottoni. Omogeneo il quartetto dei protagonisti, fra i quali ha svettato la chiara dizione del tenore venezuelano Aquiles Machado (Carlo), ficcante nelle cabalette e leggero nei rari momenti amorosi. Il convincente baritono Arthur Rucinski era il «villano» Francesco che il regista Lavia presenta gobbo e sciancato. Più opaca Lucrezia Garcia (Amalia), non sempre a suo agio nelle agilità che Verdi inserì per compiacere l’usignolo svedese Jenny Lind, prima Amalia. A posto Giacomo Prestia (Massimiliano Moor), il padre-colosso che il disumano Francesco seppellisce vivo.

Il regista Gabriele Lavia è stato criticato per aver concepito la scena fissa in un luogo lercio di scritte spray e ingombro di riflettori. Siamo sicuri che questo orrido rave party sia così lontano dal furore di Schiller e di Verdi?

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