Come redimersi dall'orrore della storia

Andrea Caterini «Per sapere occorre immaginare», scrive Didi-Huberman pensando all'inferno di Auschwitz, e aggiunge che bisogna immaginare «malgrado tutto», malgrado ciò che è stato sia «inimmaginabile». Pare questo il motore morale del nuovo romanzo di Demetrio Paolin, Conforme alla gloria, ambientato tra la Germania, Torino e Trieste, con salti temporali dagli anni della Seconda guerra fino ai nostri giorni. Eppure qui i campi di concentramento sono solo evocati; meglio, sono la colpa che ha scolpito sull'uomo la vergogna. Quella di chi è costretto, nonostante tutto, a sopravvivere. Rudolf, figlio di una SS fanatica hitleriana fino alla morte, pur abiurando il padre ne riceve in eredità una casa che vende ma conserva un'opera d'arte dipinta su pelle umana, La gloria. Poi Enea, che a Mauthausen è finito da adolescente e si è salvato perché abile nel disegno, e ora, a Torino, ha un negozio dove tatua, fino al compimento della sua opera definitiva, quella di incidere l'orrore sull'intero corpo di Ana, anoressica, la quale sogna di vedersi scomparire, o di diventare un essere totalmente esteriore pura pelle. Troppo semplice sarebbe dire che questo è un libro sul male e sul nostro modo di reagirgli, o anche solo comprenderlo. La questione che sta al fondo di tutto è più vertiginosa: il «libero arbitrio» ci salva oppure no dalla colpa? Ovvero, la nostra libertà di espiare la colpa il nostro vivere liberamente è sufficiente a redimerci? Parlo al plurale come se nel romanzo fosse l'intero genere umano sotto accusa e non i protagonisti del racconto, quasi che Paolin volesse mettere pure noi che leggiamo davanti alla nostra responsabilità. A me sembra che l'autore voglia radicare la domanda prima della teologia (quella sul peccato originale) in un territorio tutto umano, e finanche storico.

È possibile una vita senza Dio, una vita nonostante l'orrore? O quella vita è una non-vita, è già morte così come c'è scritto nella Genesi, che peccando l'uomo sarebbe morto scoprendo la vergogna del proprio stesso corpo? Enea ha tatuato sul corpo di Ana la stessa immagine commissionatagli dal padre di Rudolf quando, da ragazzo, era nel lager, l'opera che allora gli aveva salvato la vita e ora gliel'ha tolta. L'opera è il perpetuarsi della vergogna. La prova che ogni uomo è colpevole malgrado tutto; che l'orrore non è mai finito.

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