Referendum, Bersani esulta ma il Pd ammette: "Se Berlusconi si dimette, noi siamo nei guai"

In realtà dietro la strategia del Partito democratico ("Berlusconi vada al Colle e si dimetta") si nasconde la loro unica vera preoccupazione. Un passo indietro del Cavaliere "spariglierebbe i giochi e metterebbe in grossa difficoltà noi", il Pd pensa a un governo di transizione insieme al Carroccio. Ma Berlusconi assicura: "Nessuna spallata". Perà teme uno strappo dal Senatur

Referendum, Bersani esulta ma il Pd ammette:  
"Se Berlusconi si dimette, noi siamo nei guai"

Roma - Per paradosso, proprio il tonante ultimatum che il Pd, segretario in testa, dà al governo («Berlusconi vada al Quirinale e si dimetta») nasconde la loro unica preoccupazione, nel giorno del trionfo referendario.

Se davvero il premier, a sorpresa, facesse un passo indietro e aprisse la strada ad un altro governo di centrodestra, magari aperto al sostegno del centro e persino di pezzi di sinistra in nome del bene del paese e della crisi economica «spariglierebbe i giochi e metterebbe in grossa difficoltà noi», come ammette la vicepresidente Pd Marina Sereni. Riaprendo i giochi per chi nel Pd immagina governi tecnici o “transizioni” più o meno lunghe prima del voto. Cui invece punta Bersani, che spera nella Lega (tendenza Maroni) per staccare la spina al governo, in cambio di un ritocco della legge elettorale che renda il Carroccio autonomo da quorum nazionali, premi di maggioranza e alleanze forzate.

Ma l’eventualità, al momento, appare remota, e questo mette a tacere dentro il Pd ogni altra voce, da quella di D’Alema a quella di Veltroni, e rafforza un Bersani che ormai non teme più neppure le primarie di coalizione contro Vendola: «Se adesso le chiedesse, a noi toccherebbe frenare perché in questa situazione stravince», sospira un dirigente di Sel.

L’opposizione si gode il bis dell’entusiasmo post amministrative. In un clima di fair play che non si vedeva da anni, a sinistra: sarà pur vero che il Pd sul carro dei referendum c’è salito in corsa e pure all’ultimo chilometro, e con molti mal di pancia interni e contraddizioni di linea; ma i partiti promotori - Italia dei Valori e Sel - si guardano bene dal rinfacciarglielo. Anche se da Sel già avvertono che «il referendum dice chiaro che il programma del nuovo centrosinistra dovrà ripartire da lì: altro che liberalizzazioni e anti-sindacalismo alla Marchionne», come dice Gennaro Migliore. E in casa Pd i riformisti già sono in allarme: «Così finirebbe come nel 2008: si vince e poi non si riesce a governare», dice Francesco Boccia.

Di Pietro, che i quesiti sul nucleare e il legittimo impedimento li ha voluti e promossi da solo, raccogliendosi le firme tra l’indifferenza e i rimbrotti democrat (e infatti ora da solo incasserà i 400mila euro di rimborso elettorale), è diventato ecumenico come un aspirante vescovo e non rivendica alcuna primazia sulla vittoria, né sbeffeggia come un tempo i riflessi lenti del Pd. L’unica bacchettata che riserva a Bersani serve a scavalcarlo a destra: l’ex pm lo zittisce sulla richiesta di dimissioni del premier: «Noi le abbiamo chieste da tempi non sospetti. Ma farlo ora in nome dei risultati referendari è una strumentalizzazione».

Una svolta moderata in piena regola, quella attuata nelle scorse settimane da Di Pietro. E chi sospettava si trattasse solo di tattica, al fine di rafforzare la campagna referendaria, deve ricredersi: l’ex pm sprizza buonsenso da ogni poro e annuncia la nascita di una «Idv 2, che parlerà meno di criminalizzazione dell’avversario, più di capacità di voler fare meglio». E chiama a testimone Bersani, con il quale «ci sentiamo spesso e siamo dello stesso avviso», pronti a «dimostrare ai cittadini di voler governare».

In realtà, spiegano le malelingue del Pd, Di Pietro sta - con grande prontezza di riflessi - cercando una via d’uscita dal vicolo cieco: la batosta elettorale presa da Idv alle amministrative rendono necessaria come il pane, per lui, una stretta intesa con il Pd. «La sua paura - spiega un dirigente bersaniano - è che si costruisca un’alleanza con Sel a sinistra e Casini a destra che lo tagli fuori: senza apparentamento elettorale, rischia di non tornare in Parlamento». Di qui la svolta dell’ex giustizialista: Di Pietro non vuol dare pretesti per metterlo ai margini. Ora, ripetono nel centrosinistra, si tratta di vedere cosa accade nella maggioranza, che sulla carta i numeri per resistere in Parlamento li ha ancora.

Il cerino lo ha la Lega, divisa come il Pd dei bei tempi. E in vista della «verifica» del 22 giugno Bersani non vuol presentare mozioni di sfiducia che «servirebbero solo a frenare le spinte centripete» nella maggioranza.

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