È un Natale dove c’è qualcosa che non torna, ma catturarlo è difficile. Per le strade e nei negozi sembra tutto uguale, anche troppo uguale: come una fotocopia leggermente sbiadita rispetto all’originale. Se c’è recessione, è una recessione mentale. Se c’è rassegnazione, non è chiaro a che cosa sia.
A Milano hanno moltiplicato le luminarie eppure è tutto più crepuscolare, meccanico, senza slanci autentici né sceneggiati, il traffico è il solito, il freddo pure, le commesse fanno il loro lavoro e gli acquirenti pure: e nei dati sui consumi trovi tutto e niente. È passata persino la voglia di usarli contro il governo di turno, com’era regola gli anni passati. Nel periodo del panico post-euro, appunto, s’annunciavano di continuo «commercianti in affanno» e «Natale senza regali» e naturalmente «consumi in calo», ma non era mai vero, magari calavano gli acquisti dell’abbigliamento ma poi scoprivi che si stavano aspettando i saldi, magari calava l’acquisto di salmone e caviale ma la spesa per i cenoni nel complesso aumentava. Quest’anno i consumi sono un po’ calati, è vero, riflettono un anno economicamente malmesso e infarcito di balzelli, verissimo, ma lo spirito di questo Paese, dei grafici e dei picchi di crescita, in passato se n’era sempre e regolarmente fottuto. Si veleggiava in mari calmi o tempestosi con la medesima e ormai storica arte di arrangiarsi, e infatti sono i dati più periferici che dovrebbero farci pensare, farci chiedere se per caso stiamo iniziando a corrispondere a quegli italiani un po’ tristi e sfiduciati descritti dal New York Times: la gente, infatti e per cominciare, spende sì come prima, ma viaggia di meno, va meno in giro; non è che viaggia spendendo meno: viaggia proprio di meno. E compra meno vestiti e beni per sé, meno giocattoli per i figli.
La Confcommercio minimizza, spiega che la gente compra e riceve regali come negli anni passati: ma è come se gli italiani avessero deciso di risparmiare sulla gioia di vivere, glissare su quel superfluo/necessario a cui si è soliti occhieggiare quando si ama premiarsi. Walter Veltroni, a sinistra, è il massimo dell’etica ottimistica reperibile: eppure, incurante dello struzzismo di Prodi, è stato lui a dire che gli italiani devono ritrovare «fiducia, sorriso, serenità, energia e speranza». E colpisce questo: che ormai si possa dare per scontato che gli italiani non abbiano appunto più fiducia e serenità ed energia e speranza. Nessuno l’ha messo seriamente in dubbio, in questi giorni.
Un’altra cosa colpisce, poi: che la maggior parte degli italiani intervistati, in un sondaggio della Confcommercio, non ha detto che questo Natale sarà peggiore o migliore: ha detto che sarà «uguale», desolatamente uguale, come se un’apatica irresolutezza si fosse mescolata alla cappa di smog. Mettersi a speculare sul grigiore intristente del governo Prodi, a ruota, è sin troppo facile: così come è facile che l’estenuazione da scioperi e gli aumenti previsti da gennaio non rendano proprio pazzi di felicità. Ma è improbabile che sia tutto qui, e non serve essere grandi economisti per capirlo. Basta girare per strada, basta aver sbirciato il pur schizofrenico sussultare del nostro Paese negli anni passati, la nostra eterna oscillazione tra sensato ottimismo e retorica del declino, tra indagini sui nuovi ricchi e inchieste sugli italiani che non arrivano alla quarta settimana del mese.
C’è un Italia di mezzo che si scopre vulnerabile, perde status, retrocede socialmente, diviene incerta perché gli stipendi sono bassi, e gli affitti sono alti, e i Bot non sono più quelli di una volta; è un Italia più povera ma anche più ricca, divaricata a metà di un ceto medio che ormai non esiste più, perché da una parte ci s’arrangia e dall’altra si registrano record dei consumi di lusso. È l’Italia che puoi incrociare per strada in questo Natale, un Italia dimessa che accetta di far la spesa al discount ma non rinuncia a vacanze pagabili anche a rate: un neoproletariato che scivola verso il «low cost» e dunque verso Ikea, Ryanair, Zara, H&M, infinite catene commerciali che s’affollano di italiani incapaci o impossibilitati a essere le formichine di un tempo.
Quel qualcosa che non riesci a catturare, in questo Natale, quel qualcosa che non torna, è indifferenza. Euforie e rabbie hanno ceduto il passo all’abulia, appunto a un’indifferenza raffreddata che peraltro ha, in questa presidenza del Consiglio, un’emblematica e spettacolare incarnazione.
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