La regista inventa uno stupro e Carmen diventa anticlericale

La regista inventa uno stupro e Carmen diventa anticlericale

Nel dialetto palermitano vucciria, il mercato che tutti ormai conoscono per dipinto di Renato Guttuso, deriva dal francese boucherie. La regista Emma Dante, anch’essa palermitana, ha voluto impostare in un imprecisato «sud dell’anima» la Carmen che Georges Bizet fa trasudare di Francia e Spagna da tutte le note. Per essere coerente con i suoi precedenti teatrali la protagonista dell’opera che inaugura la stagione 2009-10 della Scala, è una pulla (traduzione per i continentali: signora di non irreprensibili costumi e per maggiore comodità del pubblico di Sant’Ambrogio quella che Carlo Porta avrebbe chiamato putanna). Non c’è nulla di nuovo sotto il sole. Le attitudini di Carmen sono ben note fin dalla sua comparsa sulle scene di Parigi, il 3 marzo 1875. Come ci informa Hervé Lacombe, biografo puntualissimo di Bizet, Carmen lascia una traccia di zolfo nella stampa. Fioccano appellativi come zingara infernale, Mefistofele femmina, Mignon pervertita, Messalina di basso rango, virago dalla toilette lercia e dai canti osceni. Questa la reazione di molti critici davanti al realismo che per la prima volta entrava all’Opéra-Comique, dove il pubblico era abituato alla Spagna domestica e pittoresca delle opere di Daniel Auber. Allora aveva proprio ragione Jean Cocteau che definiva i francesi «italiani senza sorriso». Per i palati evoluti d’oggi la signora regista, anche costumista, con l’ausilio delle scene insignificanti di Richard Peduzzi, ci ha presentato una piazza meridionale. Edifici stilizzati con mattoni a vista, comparse e coristi trasformati in comari e braccianti di cui è stracolma tanta narrativa. Passa la statua di una santuzza che dà l’idea del tabbutu, la cassa da morto con esplicita allusione funebre - che apre e chiude l’opera. C’è una prena, scossa dalle doglie, che quasi sgrava in scena; un quartetto di vecchie addette allo strepitu, il compianto «presente salma» (ma i maschissimi siculi usano il «ventaglio»?). È solo questa l’allusione al Mediterraneo di cui parla Nietzsche? La signora Dante ci informa che Carmen è una storia popolare di «operaie, militari e ragazzini con le pezze al culo» (così nelle note di regia intitolate «Carmen senza vergogna»). Ma le cose si imbrogliano con l’arrivo dei dragoni (abbigliati con un tocco che va da Göring a Brecht) per il cambio della guardia. «Durante la marcia i militari si tengono aggrappato il proprio doppio rimasto bambino», sempre per citare il contributo fornitoci dalla regista. Si gettano a terra e i bimbi guizzano fuori in slip per simboleggiare il passaggio all’età adulta. Ancora più significante l’ingresso delle sigaraie, vestite da monache (sono prigioniere all’ora d’aria?). Quanto sopra sempre nelle dichiarazioni anticipatrici della regista per scolorire il presunto bozzettismo originale. Ma a parer nostro le innovazioni proposte più che scolorire, confondono lo spettatore neofita e anche quello di tradizione. Ci siamo limitati, per dare solo un’idea di ciò che abbiamo visto, alle impressioni in noi destate dal primo atto.
E ora la musica. Daniel Barenboim possiede quella straordinaria natura musicale che tutti conosciamo e che ha affascinato alla tastiera del pianoforte e in un secondo tempo dal podio dell’orchestra. È un virtuoso puro che stupisce ma non coinvolge, ne è un esempio la pubblicizzata querelle fra il maestro e la regista in ordine all’espulsione dal palcoscenico delle nacchere, che la Dante ha fatto trasferire in orchestra. A parer nostro, l’aspetto negativo di quanto sopra si è avvertito soprattutto nella dilatazione dei tempi nei brani solistici e in alcuni non opportuni compiacimenti per sottolineare le meraviglie melodiche e strumentali di Bizet. La preparazione del coro da parte dell’ottimo maestro Bruno Casoni e i cantanti-attori sono la parte che a noi è giunta più gradita.
Ripetiamo il nostro accordo sul giudizio espresso dal maestro Barenboim in ordine al talento della giovane protagonista Anita Rachvelishvili, una voce sana e solida. Jonas Kaufman (José), convalescente o no, si è confermato cantante di alto rango. Al timbro brunito e drammatico unisce un’educazione musicale di squisito liederista. Una sola parola: fuoriclasse. Erwin Schrott (Escamillo), per chi ha avuto la pazienza di leggerci dobbiamo ripetere, è quanto di meglio oggi si possa immaginare per un ruolo notoriamente scomodo e quasi mai vocalmente risolto. Il ruolo di Micaela per tradizione è quello che ha più presa sul pubblico per la bellezza della musica scritta per lei da Bizet. Purtroppo la signora Adriana Damato si è trovata a confliggere con un’antagonista quale la Rachvelishvili che le ha sminuito il consenso del pubblico. A sua discolpa vogliamo invocare le attenuanti generiche vista l’incombenza clericale inflittale dall’impostazione registica che la perseguitava con crocifissi, diaconi e preti. I ruoli dei cosiddetti comprimari, che in Carmen hanno grande importanza, sono stati sostenuti con impegno e professionalità da Michèle Losier (Frasquita), Adriana Kucerová (Mercédès), Francis Dudziak (Dancairo), Rodolphe Briand (Remendado) e Gabor Bretz (Zuniga).
Il formidabile duetto finale con l’uccisione di Carmen ci ha riservato una sorpresa (che sorpresa non era viste le abbondanti anticipazioni di stampa): Don José stupra Carmen.

Signora regista, almeno di questo particolare tristemente frequente nelle cronache dei nostri tempi non sentivamo proprio il bisogno. Al glorioso teatro d’opera servono idee, non effetti. Per favore. Quanto sopra attiene allo spettacolo. Per la Rachvelishvili e Kaufman un trionfo; per la Dante un’ondata di dissensi.

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