È un piccolo produttore di vino, in tutto una decina di ettari di vigne e 100mila bottiglie l'anno con un giro d'affari sui 500mila euro. È, se vogliamo, un artigiano del Sangiovese, di quello di Predappio. Ma Giuseppe Nicolucci, occhi tra il verde e l'azzurro, forte rassomiglianza con Paul Newman e fama di aver fatto strage di cuori femminili, ama definirsi «vignaiolo», anche se oggi i vignaioli sono tutti imprenditori. E vignaiolo, sottolinea, «della terza generazione» per quanto nelle sue vigne, quelle della Fattoria Casetto dei Mandorli, il Sangiovese venga prodotto da più di sette secoli, esiste persino un editto con cui nel 1383 si ordinava ai proprietari della zona di recintare il terreno in modo «che gli animali non possano arrecare danno». E per i contravventori la pena era di «cinque soldi bolognini».
Vino «bello e bellicoso». È un vignaiolo con l'innovazione nel sangue. Anzi, più passano gli anni e più Nicolucci sforna idee che hanno per oggetto il Sangiovese, da sempre presente nell'atlante dei vini italiani. Meglio: da sempre uno dei più importanti vitigni dal momento che i più grandi vini italiani, dal Chianti al Brunello di Montalcino, sono fatti con uve di Sangiovese. Solo che c'è un neo: il vino Sangiovese, ottenuto con le stesse uve utilizzate per il Chianti e il Brunello, per decenni è stato considerato di serie B, superato alla grande dai vini toscani e piemontesi, persino da quelli siciliani e pugliesi. Fino a quando una decina d'anni fa Nicolucci, per tutti semplicemente «Pino», non è riuscito, grazie anche al figlio Alessandro, un enotecnico coi fiocchi, a migliorare la qualità del Sangiovese, rendendolo più morbido, più profumato e adatto ai gusti delle generazioni più giovani. Uno sforzo che ha del rivoluzionario: i sommelier definiscono il Sangiovese prodotto nelle sue vigne, quelle di Riggiano ma anche quelle del Generale, «bello e bellicoso». Accanto al «Tre Rocche», il più venduto, e a «I Mandorli», essenzialmente da pasto, ecco così il «Predappio di Predappio», una riserva che non ha proprio nulla da invidiare ai grandi vini. Ed ora, accettando la sfida-provocazione del presidente dei sommelier italiani, Terenzio Medri, Nicolucci ha rilanciato un vino scomparso da tempo e dal nome impegnativo, «Il Nero di Predappio», uve di Sangiovese con una percentuale di Terrano Refosco. È un vino definito «audace, turbolento, selvaggio» e con un nome che può far discutere perché il nero è un colore che nella zona di Predappio, politicamente rossa come quasi tutta la Romagna ma pur sempre la terra di Benito Mussolini, fa arricciare il naso. Oggi c'è grande tolleranza ma una trentina d'anni fa chi voleva visitare la tomba del Duce veniva bloccato lungo la strada dai comunisti e rimandato indietro a scazzottate. In aggiunta al «Nero di Predappio» Nicolucci è anche tra i promotori del progetto di aprire un'enoteca per promuovere i vini di Romagna all'interno di quella Rocca delle Caminate che fu residenza estiva della famiglia Mussolini e dal dopoguerra è chiusa. E della stessa idea sono anche il sindaco di Predappio, Giuliano Brocchi, e il presidente della Provincia Forlì-Cesena, Massimo Bulbi. Entrambi del centrosinistra.
Un campanilista. Pino Nicolucci è di Predappio. Anzi, questo è il modo sicuro per fargli venire la mosca al naso in quanto Nicolucci è un supercampanilista in una terra come la Romagna in cui il campanilismo fatica a scomparire. Lui è di Predappio Alta, una frazione con poco più di 300 abitanti rispetto ai quasi 6mila residenti di Predappio. Ma una volta, dice, «Predappio Alta era sede del Comune». Fino a quando Mussolini non lo aveva trasferito a Predappio solo perché voleva un Comune con una popolazione più numerosa. E si tratta di «uno sgarbo» che la gente di Predappio Alta non considera comunque tale solo perché, chiarisce Nicolucci, «l'ha voluto Mussolini». Non c'è da stupirsi: gli abitanti di Predappio, i quali votano in gran parte per la sinistra, non hanno industrie con le ex Officine aeronautiche Caproni tuttora inutilizzate, non hanno nemmeno un albergo e vivono di agricoltura, artigianato e turismo alimentato in particolare dai nostalgici del Duce, hanno un curioso rapporto con Mussolini. Tipico è l'esempio fornito proprio dalla storia della famiglia Nicolucci: all'inizio c'è Giuseppe, il nonno di Pino, vignaiolo doc che si occupa solo delle vigne ma ogni lunedì sera, prima ancora dello scoppio della guerra mondiale, si reca in bici a Forlì, a una ventina di chilometri, dove partecipa alle riunioni del partito socialista con Benito Mussolini. Poi c'è il figlio Amedeo, 1899, anche lui vignaiolo, soprannominato «Pistulin» perché donnaiolo incallito e socialista quando ormai tutti sono diventati fascisti. Ma è amico di Benito per cui rientra in quel gruppetto ristretto di socialisti predappiesi (Stradaioli, Cagnani il calzolaio, un tizio soprannominato «Bandiera») considerati «intoccabili» dai fascisti: per loro niente bastone e olio di ricino anche se prendono a pernacchie chi indossa la camicia nera.
Lagriturismo. Dopo Giuseppe e Amedeo è la volta di Pino. Classe 1941, naturalmente di fede socialista anche se l'anima socialista è ora divisa in più partiti, Pino Nicolucci ama andare a cavallo tra i boschi e i campi, raccoglie funghi e tartufi, è un abile giocatore di marafone (il tresette con le briscole), suona la chitarra, si sposa a 26 anni con Maria Gimelli, donna bella ma anche energica che prenderà poi in mano l'organizzazione della fattoria, si considera un pioniere dell'agriturismo al punto da soffrire ancora oggi al solo pensiero di essere stato costretto a vendere il suo dopo la morte della moglie, definisce la vigna come il suo «grande amore». Anche se allinizio non è proprio così. Da ragazzo non vuole lavorare nei campi, anzi, cerca di seguire l'esempio dei due fratelli maggiori che se ne sono andati per i fatti loro: il primogenito, Ivano, suona addirittura il sax nell'orchestra di Secondo Casadei prima di formare un complesso tutto suo specializzato sempre nel liscio e di nome «La vera Romagna». Pino, che ha l'appoggio di mamma Caterina, vince così il concorso alle Poste in quanto è molto abile con il telegrafo, viene spedito a Porto Tolle, nel Polesine, alla fine riesce a tornare a Forlì. Lavora alle Poste di mattina e nelle vigne col padre nel pomeriggio. E impara ad amare la vite e l'uva. Dopo 17 anni e sei mesi alle Poste, va in pensione con il minimo, dedicandosi da allora solo al vino. E quando il figlio Alessandro, 1969, agraria a Cesena e specializzazione in enologia-viticoltura a Conegliano Veneto, entra in azienda, vara una suddivisione dei ruoli: lui pensa solo alle vigne, Alessandro alla cantina. Che non è una cantina qualsiasi ma è ricavata nei sotterranei della Rocca di Predappio Alta. E lavorando insieme, padre e figlio riescono a rivoluzionare il modo di fare Sangiovese. Dalla riduzione della lunghezza della vite a 80 centimetri in modo da avere una maggiore qualità alla vinificazione a 25-26 gradi al massimo per avere un controllo assoluto dell'acidità volatile e delle asperità tanniche.
Ma c'è il problema della promozione. Dovrebbe pensarci l'enoteca di Dozza, nei pressi di Bologna, che ha l'incarico dalla Regione Emilia-Romagna. Ma, dice Nicolucci, «i vini romagnoli sono curiosamente dimenticati». E a lui la cosa non sta bene. Così vuole un'altra enoteca che si occupi in maniera esclusiva delle 170 aziende che producono vini romagnoli. E come sede pensa alla Rocca delle Caminate in modo da attrarre anche il cosiddetto turismo mussoliniano calcolato in 150-160mila persone lanno.
Il primo Consiglio Rsi.
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