RENATO GUTTUSO Le due vite di un pittore

Una doppia data di nascita e un doppio funerale, prima con le bandiere rosse e poi in chiesa: il ritratto dell’artista nella nuova biografia di Parlavecchia

RENATO GUTTUSO  Le due vite di un pittore

«Renato Guttuso nasce a Bagheria il 26 dicembre 1911. Renato Guttuso nasce a Palermo il 2 gennaio 1912. A questa nascita “doppia” corrisponde, all’altro capo del filo, un funerale “doppio”: laico, in piazza del Pantheon - sventolare di bandiere rosse - e religioso, a Santa Maria sopra la Minerva - con tutti gli onori che la Chiesa offre al figliol prodigo ritrovato. Un destino “doppio” che si rispecchia nel carattere. Nelle testimonianze delle persone a lui più vicine, nelle lettere, più raramente nelle confessioni pubbliche, affiora un dissidio fra opposti, fino al tormento». Con questo magnifico incipit celebriamo prima di tutto la nascita di uno scrittore, e saggista, di qualità: Paolo Parlavecchia al suo primo libro dopo un’intera vita passata dall’altra parte della barricata, quella del manager editoriale. Renato Guttuso. Un ritratto del XX secolo (Utet, 342 pagine, 22 euro), è un esordio eccellente su un personaggio difficile e quasi scomparso dalla memoria collettiva - a vent'anni dalla morte - dopo essere stato per decenni al centro delle cronache, non solo culturali. Passato dalla protezione di Giuseppe Bottai a quella di Palmiro Togliatti, la doppiezza «fino al tormento» di cui scrive Parlavecchia si manifestò anche nella posizione pubblica di comunista convinto, ma dubbioso di fronte agli eventi che - nel 1956 e dopo - fecero allontanare molti intellettuali dal Pci; nell’intimo contrasto fra l’adesione all’estetica ufficiale del partito e la difesa della libertà dell’artista; negli agi di un uomo diventato ricco nell’austerità di vita di un comunista ortodosso; nella «piena dei sentimenti» (il turbinoso amore con Marta Marzotto) e il rispetto dei vincoli matrimoniali con la moglie Mimise, durati mezzo secolo, fino alla morte di entrambi a distanza di pochi mesi. Il libro è a tutto tondo, dall’infanzia alla complessa questione ereditaria, con analisi attente sull’evolversi e sul significato della pittura dell’artista. Ma è prevedibile che interesserà soprattutto la sua vicenda politica.
Il giovane Guttuso partecipa ai Littoriali fascisti del 1937 (dove si classifica secondo per la critica d’arte) e del 1938. È già allora comunista, ma accetta volentieri di collaborare con Bottai, gerarca e ministro fascista che - minimizza Guttuso in un’intervista del 1970 - «cercò di ravvivare l'interesse artistico nell’ambito del fascismo». Lo scopo di Bottai era molto più ambizioso e lungimirante e Guttuso lo sapeva bene, come tutti gli intellettuali, giovani e meno giovani, che collaborarono alla bottaiana Primato. Nell’editoriale di apertura della rivista, il 1° marzo 1940, Bottai chiedeva in modo esplicito di «rendere concreto ed efficace il rapporto tra arte e politica, tra arte e vita, \ lavorando nel nome e nell’interesse della Patria». Che quel rapporto si dovesse risolvere - nelle sue intenzioni - in vantaggi non solo per la cultura, ma anche per la cultura fascista e il fascismo, non poteva sfuggire a nessuno. Non poteva sfuggire a Guttuso, che all’invito di Bottai rispose, fra i primi a aderire, il 5 febbraio 1940: «Vi ripeto la mia gratitudine e il mio entusiasmo a collaborare a Primato». Né poteva sfuggire a nessuno che il premio di pittura Bergamo, creato da Bottai per contrastare il fascistissimo premio Cremona (patrocinato da Farinacci), stava a indicare agli occhi di qualsiasi osservatore - italiano e straniero, contemporaneo e postero - una libertà in ambito artistico impensabile tanto nella Germania nazista quanto nell’Unione sovietica staliniana. Nella succitata intervista, Guttuso definisce il premio Bergamo - a ragione - «aperto, liberale, privo di tema fisso o con un tema di largo respiro»: tant’è che Guttuso arrivò, non ancora trentenne, alla fama e al successo con due secondi posti nel premio Bergamo (che garantivano anche il bell’appannaggio di 25mila lire). In particolare, nel 1941, venne portato alla ribalta dalla sua Crocifissione, un’opera iconoclasta non solo per la cultura fascista, ma anche e soprattutto per la Chiesa dell’epoca, tanto da suscitare lo sdegno dell'Osservatore romano e la proibizione, per i fedeli, di andarla a vedere. A parte la presenza della Maddalena nuda, l’intero impianto dell’opera è di un crudo realismo. Bottai lo difese, con il suo peso e il suo prestigio nel regime, pur conoscendo le simpatie comuniste di Guttuso.
Il gerarca, dopo la guerra, troverà «motivo di conforto» nel fatto che tanti giovani, «che ho protetti, e sostenuti e lanciati, abbiano sciamato nei giornali e riviste o socialiste o comuniste, e si trovino tutti sulle trincee più avanzate del nuovo moto italiano: segno indubbio che la mia autorità ha giovato a portarli salvi e illesi a questa libertà». Non ottenne per questo gratitudine, da parte dei «redenti», secondo la definizione di Mirella Serri nel recente saggio omonimo (I redenti. Gli intellettuali che vissero due volte, Corbaccio). Di quel vivere due volte, nella cultura fascista prima, in quella comunista dopo, Guttuso è un esempio clamoroso: membro della direzione del Pci, pittore ufficiale del partito fino a disegnare personalmente il celebre simbolo della falce e martello, neanche la denuncia dei crimini di Stalin, l’invasione dell’Ungheria e della Cecoslovacchia smossero il pittore dalla sua ortodossia comunista. Era, del resto, pluripremiato e riconosciuto anche in Unione Sovietica.
Quanto opportunismo vi sia stato nella «dissimulazione onesta» (come amavano definirla) degli intellettuali antifascisti o non fascisti protetti da Bottai, è cosa difficile da valutare, e ogni caso va esaminato a sé. Ma rimane da capire anche quanto e come «furono dissimulatori onesti» nel dopoguerra: quanto e come si resero conto che - dopo avere dato un sostegno al fascismo con il loro lavoro - continuarono a sostenere un’altra, soffocante, egemonia culturale. La biografia di Parlavecchia permette di rintracciare una linea di coerenza nelle posizioni di Guttuso, in un filo continuo, sia pure nero/rosso. Nel 1938 Bottai aveva scritto: «Noi chiediamo all’artista dei fatti, il cui impegno morale non sia inferiore a quello che ogni fascista porta nell'adempimento del suo compito. Non gli chiediamo la cronaca illustrata dei fatti eroici del fascismo». E Guttuso sembra rispondergli, in totale accordo, su Primato del 15 agosto 1941: «Non è necessario per un pittore essere d’un partito o d’un altro, o fare una guerra, o fare una rivoluzione, ma è necessario che egli agisca, nel dipingere, come agisce chi fa una guerra o una rivoluzione. Come chi muore, insomma, per qualche cosa». Furono più difficili i rapporti con Togliatti, che nel 1948, attaccò i pittori, in grande parte comunisti, colpevoli di avere messo insieme per un’esposizione «una raccolta di cose mostruose \ orrori e scemenze», prive cioè di quel «contenuto» che la lotta di classe richiede. Guttuso gli rispose in pubblico accampando la necessità di arricchire «le possibilità espressive di un’arte» che può essere utile alle lotte della classe operaia «solo se è veramente arte, non mera illustrazione naturalistica».


Con queste premesse, non può stupire il successivo destino doppio del ferreo marxista divenuto amante di una contessa ex mondina e accompagnato alla tomba prima dalle bandiere rosse, poi dal prete: un perfetto esempio di italiano - di grande talento - del XX secolo.
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