Rendere pubblico il privato è una brutta mania della Seconda repubblica

Caro Granzotto, chi semina vento raccoglie tempesta mi diceva sempre una vecchia zia professoressa di pianoforte. Ed è vero: Repubblica ha seminato il vento dell’antiberlusconismo circoscritto alla persona e alla sua vita privata e ora i «repubblicones» e la sinistra raccolgono la tempesta che si meritano. Vorrei però chiederle una cosa: è sempre andata così? Dai vaghi ricordi che ho non mi sembra che quando ero ragazzo presidenti del Consiglio, ministri e politici venissero messi in mutande sulla piazza mediatica. E così?
Milano

Grosso modo era così, caro Faccioli. Il primo clamoroso caso di omertà istituzionale si ebbe proprio all’alba della Repubblica. Quando, mollata la moglie Rita Montagnana, Palmiro Togliatti mise su casetta (una mansarda nel Bottegone) con l’allora bella guagliona Nilde Jotti. Tenga presente che in quegli anni i «pubblici concubini» finivano dritti in galera, quindi si figuri lo scandalo. Però, anche se tutti sapevano nessuno fiatò. Nemmeno i politici, i quotidiani o i settimanali di destra. Perfino con lo scandalo Montesi, e sì che ne ebbe di contorni licenziosi, i cronisti ci andarono piano, accennando caso mai a «squallidi festini» che poi, insieme ai «balletti rosa», divennero la formula giornalista per dire e non dire, fermo restando il silenzio sui nomi e sui particolari. Non saprei dirle se ciò fosse determinato dallo spirito dei tempi, ovvero dal rispetto di quel comune senso del pudore che imponeva alle gemelle Kessler i mutandoni. O se invece fosse qualcosa di più alto, far da scudo alle istituzioni, alla politica in genere, perché gli scandali o altro non ne intaccassero la dignità e l’autorità. Per dire quale fosse il clima, destò grandissimo scalpore (e ilarità, bisogna ammetterlo) un fatterello accaduto, si era nel maggio del ’58, nel corso della campagna elettorale. In una piazza di Vico Equense il democristiano Fiorentino Sullo si accingeva ad arringare la folla, ma ancor prima che aprisse bocca dalla folla medesima s’alzò un urlo: «Ricchione!». A lanciarlo fu il socialdemocratico Peppino Angrisani, che come tutti quelli del Palazzo era a conoscenza preferenze sessuali dell’oratore, ma che per averle platealmente rese note al pubblico, fu sommerso dalle indignate critiche della non ancora «società civile». E non le dico, caro Faccioli, l’imbarazzo del cronista: scrivere o non scrivere a tutte lettere l’invettiva?
Si sapeva, quanto meno nelle redazioni dei giornali, ogni cosa: che quell’alta carica dello Stato aveva un debole per i marinai, che quel ministro era fidanzato col suo autista, che la moglie di quell’altro papavero rallegrava i ragazzini nel buio delle sale cinematografiche, che Tizio era un habituée degli «squallidi festini» e Caio dei «balletti rosa». Però, i fatti privati restavano, salva rarissime eccezioni, tali. Si cominciò a sbirciare nel buco della serratura con lo scandalo Lokcheed, anno Domini 1976. L'Espresso, che aveva montato tutta la faccenda e chiamato in causa Giovanni Leone (in seguito assolto da ogni colpa e vittorioso in una colossale causa per diffamazione), prese a passare al setaccio la vita del presidente e della sua famiglia che fu, come si disse e si dice, «sbattuta in prima pagina».

Da allora e a piccoli passi, il privato ebbe sempre più rilevanza nelle cronache politiche, fino ad arrivare ai parossismi dell’antiberlusconismo, che trae nutrimento dalle bandane e dai trapianti piliferi, dalle schitarrate e dai sopratacchi, dalle ville e dai cactus per finire alle escort e ai lettoni di Putin. E adesso tocca a Marrazzo e alle Brendone (anche se quel contafrotte d’un D’Avanzo sostiene che è tutta colpa di Papi).

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