Politica

Rendite finanziarie e risparmio punito

Molte cose non sono chiare in questo lungo e confuso dibattito sulla nuova legge finanziaria come abbiamo già detto nei giorni scorsi. L’entità della manovra (30 miliardi) sembra sempre più un’utopia contabile, mentre un ulteriore riordino del sistema pensionistico, al di là delle chiusure delle famose finestre per le pensioni di anzianità, non sembra sia praticabile dentro la legge finanziaria, pena lo scontro con i sindacati. Ma c’è qualcosa ancora di più grave che non riusciamo a comprendere. Ci riferiamo al preannunciato aumento della tassazione sulle rendite finanziarie e la sua unificazione in una sola aliquota. Qui discutiamo del risparmio degli italiani che ancora oggi, nonostante la sua lenta erosione, resta il più alto tra i Paesi europei. Una ricchezza delle famiglie, quindi, ma anche dell’intero Paese che non va né oppressa, né intimidita per il sostegno che essa dà alla crescita dell’intera economia. Ma veniamo al dunque. Autorevoli ministri parlano di un’aliquota unica del 20 per cento su tutte le rendite finanziarie. Dai titoli di Stato alle obbligazioni, dalle azioni a tutti gli altri strumenti finanziari. Due sono le questioni che non riusciamo a capire bene. La prima. Se l’aumento del prelievo fiscale dovesse colpire i titoli di Stato già emessi e le obbligazioni a cedola fissa già collocati sul mercato avremmo inevitabilmente una sostanziale retroattività fiscale che suonerebbe, piaccia o no, come un esproprio del tipo di quello che Giuliano Amato fece nel ’92 sui conti correnti degli italiani. Chi ha comprato un titolo obbligazionario, infatti, vedrebbe di colpo ridurre quel rendimento per il quale lo aveva acquistato. Altra cosa, naturalmente, sarebbe se la nuova tassazione riguardasse solo le nuove emissioni obbligazionarie, pubbliche e private, perché a quel punto l’incontro tra domanda e offerta sul mercato darebbe un nuovo aggiustamento tra investimenti e rendimenti. La seconda questione. Mentre per le persone fisiche la tassazione sulle rendite finanziarie (titoli di Stato, obbligazioni e quant’altro) è una cedolare secca, per le persone giuridiche (banche, imprese, fondi e via dicendo) il prelievo del 12,5 per cento di oggi e quello eventuale del 20 per cento di domani sono solo una ritenuta d’acconto perché i rendimenti finanziari di tutti i titoli concorrono a definire la sua massa imponibile. Le società, insomma, sono tassate a bilancio. Se così è, delle due l’una: se si conferma il profilo della ritenuta d’acconto per i titoli posseduti da persone giuridiche, l’aumento dal 12,5 al 20 per cento sarà neutrale per i bilanci delle società e naturalmente per il Fisco. Se paghi una ritenuta d’acconto più alta, infatti, successivamente pagherai proporzionalmente di meno sia l’Ire che l’Irap secondo il principio dei vasi comunicanti. In tal caso, l’aumento del prelievo fiscale sulle rendite finanziarie colpirebbe, di fatto, solo le famiglie. Se, invece, anche la tassazione sui titoli posseduti dalle persone giuridiche dovesse assumere il profilo della cedolare secca, le banche, le imprese e le società di ogni tipo ne avrebbero un guadagno perché le loro rendite finanziarie non concorrerebbero più alla massa imponibile e quindi al criterio della progressività fiscale. Anche in questo caso solo le famiglie verrebbero colpite e il Fisco vedrebbe addirittura ridurre il proprio gettito. La terza via non riusciamo a vederla, né qualcuno del governo l’accenna timoroso, forse, che ove mai esistesse sarebbe un colpo devastante per il risparmio italiano con tutto ciò che ne consegue sulla crescita dell’economia. Per brevità non parliamo del conseguente aumento della spesa pubblica per interessi che la nuova tassazione del 20 per cento stimolerebbe con il naturale incremento dei rendimenti dei titoli di Stato, insomma una sorta di partita di giro. Quindici anni fa il 90 per cento dei titoli di Stato era nelle mani delle famiglie italiane. Oggi oltre il 50 per cento è nelle mani degli investitori stranieri che hanno mille altre opzioni di investimenti nel mondo globalizzato.

Per un Paese che ha il terzo debito più alto del mondo, è d’obbligo non spaventare né il risparmio nazionale né quello internazionale perché alla fine il gioco potrebbe essere o a somma zero o addirittura pesantemente negativo.

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