Cultura e Spettacoli

REPORTER I magnifici tredici

Forse non è casuale che il più grande capocronista della storia sia stato anche un assassino. Nei vent’anni in cui tenne le redini della cronaca del New York World, a partire dal 1898, Charles Chapin fece compiere al giornalismo il salto definitivo verso la modernità: potenziò l’uso del telefono, spedì nella metropoli numerosi addetti al «lavoro di gambe» e collocò in redazione «riscrittori» di mestiere, con il compito di tramutare i nudi fatti in storie coinvolgenti. Lo stile «veloce» della cronaca così come oggi la leggiamo, il modo di disporre i dettagli, impaginare, titolare, la professionalizzazione della figura del reporter: tutto ciò lo dobbiamo a Chapin.
Il quale dirigeva con ferocia capricciosa i cronisti, li licenziava alla minima disubbidienza (si vantava di averne silurati 108, tra cui il figlio del proprietario della testata), e più grande era la tragedia su cui occorreva lavorare, più era felice. Quando il battello General Slocum affondò trascinando con sé 1.021 morti, i redattori piangevano leggendo nei dispacci di bambini stritolati fra gli ingranaggi della ruota del piroscafo. Lui, danzava per le scrivanie, gongolando per l’evento sensazionale e recitando a voce alta i dettagli più scioccanti. Negli stessi uffici dai quali uscì in manette per aver ucciso la moglie Nellie.
È uno dei fatti narrati da David Randall in Tredici giornalisti quasi perfetti: stimolante libro in cui l’autore - senior editor all’Independent on Sunday, ex capocronista di tre quotidiani nazionali britannici - si diverte a mettere insieme quella che per lui sarebbe la redazione ideale. I ritratti più intensi riguardano i cronisti che non potendo «sollevare la cornetta, fare telefonate a carico del giornale e dettare il pezzo», dovevano affidare i propri reportage scritti a mano a corrieri che li recapitavano persino tre settimane dopo.
La carriera di William Russell iniziò con un pasticcio dovuto a questi tempi lentissimi: spedito dal Times a Dublino nel 1844 per seguire il processo al leader irlandese O’Connell, avrebbe dovuto rientrare con la notizia a Londra prima del rivale del Morning Herald. Ottenuto lo scoop, salì sulla nave assoldata dal Times, guardando quella dell’Herald che languiva in porto. Giunto alla meta incontrò quello che gli parve un tipografo del suo quotidiano, che gli chiese se O’Connell fosse colpevole o no, e lui rispose di sì. L’uomo era però un cronista dell’Herald, che uscì subito bruciando tutta la concorrenza. Il direttore del Times perdonò Russell, che divenne il primo e più grande reporter di guerra: i suoi resoconti dalla Crimea, dall’India, dagli Stati Uniti sono prototipi di precisione, indagine, freddezza e capacità di stringere amicizia con i generali in un’epoca in cui i giornalisti non erano mai «al seguito», ma sempre osteggiati, quando non minacciati, dai militari stessi.
Edna Buchanan entrò di diritto tra i cronisti più importanti del ’900 grazie alla tenacia assoluta nel raccogliere informazioni per i suoi pezzi di «nera» e agli incipit memorabili. Su un ex detenuto ucciso da una guardia prima che potesse ordinare da mangiare: «Gary Robinson è morto affamato». Su un corriere della droga morto per aver ingerito 82 preservativi pieni di cocaina: «Il suo ultimo pasto valeva 30.000 dollari e lo ha ucciso». E ancora: «Il primo matrimonio di Vincenzo Quito durò 62 anni. Il secondo è finito dopo sei giorni». Nonché l’incipit più famoso di tutti: «Brutte cose capitano ai mariti della vedova Elkin». Era l’epoca in cui a Miami i funzionari dell’obitorio affittavano camion frigoriferi da Burger King a ogni improvvisa impennata di delitti.
Poi c’è Abbott Liebing. Dalla malavita di New York ai relitti dello show business, dai pugili ai loro manager, nulla gli sfuggì. I suoi articoli sono raccolti in sedici volumi. Come tutti i protagonisti descritti da Randall, iniziò giovanissimo, con furbizia e caparbietà. Fece dipingere un cartellone con la scritta «Assumete Joe Liebing» e lo piazzò fuori dal World. Non lo ingaggiarono, ma vendette questa storia personale a un’altra testata e da lì iniziò a scrivere pezzi di colore sulla vita notturna, fino ad approdare al New Yorker, per poi accorgersi di voler restare freelance. Dotato di curiosità insaziabile, pesava più di un quintale, soffriva di calcoli renali e gotta, e mangiava in continuazione cibo pesante e dolci alla panna.
George Seldes fu un osso duro per tutti i politici del suo tempo. Scrisse cronache dalla repubblica di Weimar, dove mise a punto una tecnica di indagine giornalistica improntata all’indipendenza totale. I direttori lo ostracizzarono. Di rimando, per un certo periodo fece stampare un proprio notiziario. Fu il primo a denunciare, dati alla mano, nel 1938, la correlazione tra fumo e cancro. Morì a 104 anni dopo aver pubblicato diversi libri con tutto ciò che i direttori non gli avevano fatto uscire.
Nellie Bly fu invece il miglior cronista infiltrato della storia. Nel 1887, fingendosi pazza, si fece internare al Blackwell’s Island, famigerato manicomio femminile di Manhattan, per uscirne con articoli-denuncia sulle raccapriccianti condizioni delle 1.600 donne lì rinchiuse. Nel corso della carriera Nellie riuscì a fare il giro del mondo in 72 giorni; a sposare un uomo di 40 anni più vecchio di lei e a quadruplicare le entrate dell’azienda di lui, che era in perdita; a seguire la prima guerra mondiale dal fronte.
Si potrebbe continuare con Floyd Gibbons, il cui ego era troppo grande per essere contenuto in una redazione, per finire con Hugh McIlvanney, giornalista sportivo dallo stile fantasioso: «Il colpo che ha messo al tappeto Anderson è stato in volo così a lungo che lo si sarebbe potuto dipingere a olio prima che andasse a segno».
Lo sguardo di Randall è tuttavia parziale. Soltanto leggendo con attenzione tra le righe si fa insistente la domanda sul lato umano dei suoi eroi, e su quanto infine il mestiere di reporter possa confarsi a una psicologia precisa. Alcuni di questi giornalisti «quasi perfetti» finirono col bere, fumare o mangiare troppo, fino a distruggersi. Tutti cercarono partner poco esigenti, da cui riuscirono comunque a divorziare due, tre, quattro volte: «Tra la fine dei Settanta e l’inizio degli Ottanta mi resi conto che soltanto il mio lavoro mi aveva dato un vero piacere», confessò Edna Buchanan la quale, ritiratasi, ha scritto undici romanzi polizieschi, e nessuno d’amore.
Quel che è peggio, quando Randall parla per molti di loro di coraggio morale, spesso, senza saperlo, intende coraggio tout court. Tanto da ricordare l’osservazione di un pensatore francese: un quotidiano potrebbe certo chiamarsi Voltaire, per via dell’intelligenza arguta e della mondanità, ma mai Montaigne, amante della saggezza.

David Randall, Tredici giornalisti quasi perfetti, Laterza (pagg.

308, euro 12).

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