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La repressione di Assad: carri armati contro i ribelli

GerusalemmeLa repressione del regime siriano contro i manifestanti diventa ogni giorno più sanguinosa e spinge Washington a minacciare sanzioni per fermare le violenze. All’alba di ieri carri armati e blindati dell’esercito nazionale hanno fatto irruzione nelle strade della cittadina di Daraa, nel sud del Paese. È qui che più di cinque settimane fa, sull’onda del dissenso nel resto della regione, sono iniziate le manifestazioni contro il regime di Bashar el Assad che si sono poi propagate nel resto della Siria.
Quella di ieri è stata una vera e propria operazione militare contro la città simbolo della protesta siriana. Verso le quattro e mezzo del mattino, poco prima della preghiera islamica dell’alba, circa quattromila soldati sono entrati a Daraa con blindati e sette carri armati, rivelano attivisti per i diritti umani del luogo. A quell’ora, molti uomini si stavano recando nelle moschee per pregare. L’esercito avrebbe sparato contro gli abitanti scesi in strada e contro le case con munizioni pesanti. Almeno undici persone sarebbero rimaste uccise, secondo fonti locali. Per altri testimoni, citati dal sito Shaam News Network, vicino all’opposizione, dozzine di corpi sono rimasti per ore nelle strade. Le ambulanze non avrebbero potuto avvicinarsi a causa dei cecchini appostati sui tetti degli edifici più alti. Difficile verificare tutte queste informazioni: la Siria è sigillata da settimane, i giornalisti stranieri sono stati espulsi, a Daraa manca l’elettricità e le linee telefoniche sono state tagliate. A causa degli avvenimenti delle ultime ore persino il vicino confine con la Giordania, a soli cinque chilometri di distanza dalla città, è stato chiuso dalle autorità siriane, hanno spiegato i funzionari di Amman. Damasco però nega.
Da venerdì il numero dei morti negli scontri tra manifestanti e polizia è salito a 135. Per Human Rights Watch dall’inizio delle proteste le vittime sarebbero oltre 200. Nonostante il crescere della repressione e l’entrata in scena delle forze armate, la protesta non accenna a fermarsi. Il tentativo di apertura del raìs Assad, che la settimana scorsa ha cancellato le leggi di emergenza in vigore da 48 anni, è arrivato tardi, quando la frustrazione popolare era già troppo alta. Ieri il dissenso è scoppiato anche in altre parti del Paese: ci sono state manifestazioni e disordini a Douma, nei sobborghi di Damasco, dove le forze di sicurezza avrebbero arrestato decine di persone.
Le condanne internazionali arrivano da ogni parte. Il commissario delle Nazioni unite per i diritti umani, Navi Pillay, ha chiesto che la Siria metta fine alla repressione militare. La violenza del regime sta facendo cambiare posizione a quei governi europei, come Francia e Gran Bretagna, che hanno creduto nella possibilità di aprire un dialogo con Damasco. E lo stesso accade a Washington: «Gli Stati Uniti stanno pensando a possibili opzioni, comprese sanzioni mirate, per rispondere alla repressione e far capire che questo comportamento è inaccettabile», ha detto Tommy Vietor, portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale americano. E il Wall Street Journal ieri ha rivelato che l’Amministrazione Obama sta lavorando alla bozza di un ordine esecutivo che dia al presidente il potere di congelare gli asset di alcuni alti funzionari siriani negli Stati Uniti.

La mossa cambia il corso alla politica di apertura portata avanti negli ultimi due anni dall’Amministrazione americana, che aveva alleggerito il blocco commerciale sull’import ed export con la Siria imposto nel 2004 dal presidente George W. Bush e ha inviato a gennaio un ambasciatore a Damasco, dopo sei anni di gelo diplomatico.

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