La resa dei conti democratica in un clima da tutti contro tutti

RomaIl segretario Pier Luigi Bersani, dice chi lo ha visto nelle ultime ore, si mostra «molto tranquillo». Lui e i suoi sottolineano con insistenza i «diversi comportamenti» che gli uomini targati Pd mettono in atto quando vengono colpiti da inchieste (il «passo indietro» di Penati); e attaccano con durezza il senatore Tedesco renitente alle dimissioni.
Ma dietro l’apparente serenità e le rituali dichiarazioni di fiducia nel lavoro della magistratura la tensione è palpabile. Il meccanismo a catena che si è messo in moto, tra le iniziative giudiziarie che si moltiplicano e il vento anti-casta che investe i partiti, tutti, senza fare più quelle automatiche distinzioni che caratterizzarono l’epoca di Tangentopoli risparmiando la sinistra, non è controllabile, e nessuno sa dove possa portare. E le due diverse vicende che chiamano in causa il Pd - il caso Tedesco da sud e quello Penati da nord - sembrano puntare in maniera convergente sulla maggioranza interna e in particolar modo su quell’asse D’Alema-Bersani che meno di due anni fa riconquistò la guida del partito dopo la stagione veltroniana.
Un outsider delle correnti come l’ex portavoce di Prodi e oggi senatore Silvio Sircana, invita il Pd a fare «un check up e a guardarsi dentro». Enrico Letta, vice di Bersani, dalle colonne dell’Unità rivendica l’atteggiamento «lineare e coraggioso» del Pd sulle richieste di arresto votate mercoledì scorso, e dopo aver insistito con durezza sulla necessità che Tedesco si dimetta («Ma aldilà della moral suasion non possiamo andare», ammette, ben sapendo che il senatore non ci pensa neppure) sposta il tiro su un altro bersaglio interno: chi ha deciso l’abbinamento del voto su Papa e sul senatore pugliese ha fatto «un errore che ha danneggiato il Pd, un danno evidente». Il bersaglio non nominato è Nicola Latorre, autore secondo i suoi critici interni del «pactum sceleris» con il Pdl, e indirettamente anche la capogruppo a Palazzo Madama Anna Finocchiaro che lo ha difeso davanti all’irritazione di Bersani e all’ira dei lettiani. Quanto a Penati, il vicesegretario del Pd assicura che il partito «in questa storia non c’entra nulla», perché le indagini «risalgono a tempi in cui non c’era». Fatti dei Ds, insomma.
L’unica esponente democrat che si è subito appassionatamente messa a cavalcare la questione morale è Rosy Bindi, «in perenne ricerca di visibilità», come accusa un dirigente vicino a Bersani. Che però invita le diverse anime interne ad evitare di brandire le inchieste per aprire un fronte politico contro la maggioranza Pd: «Sul caso Tedesco non possono parlare né Franceschini né il sindaco Emiliano, autori del patto per farlo eleggere», e tanto meno Nichi Vendola che lo fece assessore. Quanto a Penati, «è stato certo il capo segreteria di Bersani, ma ai tempi della sua seconda candidatura alla Provincia di Milano era un iper-veltroniano». Ce n’è anche per la Bindi, che «alle primarie strinse alleanze con Loiero in Calabria e con l’assessore bassoliniano, ora passato a Forza Sud Montemarano in Campania, per avere i loro pacchetti di voti». Nessuno, insomma, può «scagliare la prima pietra» morale, dentro il partito.
Ma la preoccupazione c’è. Diversi giornali ritirano fuori, in connessione con l’inchiesta su Penati, la vecchia storia dell’acquisto di una quota dell’autostrada Milano-Serravalle da parte della provincia da lui guidata, che versò 238 milioni di euro al costruttore Marcellino Gavio (che poi partecipò alla scalata Unipol su Bnl): nelle intercettazioni sulla vicenda finì anche Bersani. «All’epoca delle dimissioni di Penati da capo della segreteria, le voci di inchieste c’erano già», assicura un dirigente veltroniano.

Che spiega: «Prima di aprire fronti interni aspettiamo di vedere i fatti. Ma certo i nomi di uomini vicini a D’Alema continuano a uscire dalle pieghe di diverse inchieste, e ora anche quelli di uomini di Bersani: la questione prima o poi andrà affrontata».

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