Una residenza a ostacoli

Egregio Massimiliano Lussana, conoscendo l’impegno suo e de «il Giornale» nel denunciare le ingiuste limitazioni ai diritti e alle libertà individuali, porto alla sua attenzione il mancato riconoscimento da parte del comune di Levanto del mio diritto di residenza, un caso personale purtroppo comune a molti altri cittadini.
Come è noto, sia la costituzione (art. 16) che il codice civile (art. 43) riconoscono al cittadino il diritto fondamentale di eleggere in piena libertà la propria residenza, compatibilmente con le proprie necessità e interessi e indipendentemente dalla sede lavorativa o dei propri affari (che corrisponde invece con l’istituto del «domicilio»). Unico requisito è l’abituale residenza (spesso malamente e erroneamente intesa come permanenza 24 ore su 24 nel medesimo posto).
Forse non è altrettanto noto che tale diritto venga «viziosamente» non riconosciuto da parte delle amministrazioni comunali, al punto da indurre il Ministero degli Interni a ribadirlo tramite la circolare chiarificatrice n. 8 del 29-5-1995.
È interessante notare come i criteri di accettazione delle domande di residenza da parte delle amministrazioni comunali, si fondino su una legge - abrogata nel ’61 (n. 5 10-02-61) di epoca fascista (n. 1092 del 6-7-1939) pensata per limitare il libero spostamento sul territorio dei cittadini ed esercitare un controllo territoriale.
Inoltre non è dato sapere al cittadino secondo quali criteri e/o mancanze la propria domanda di residenza venga rifiutata nonostante l’avvenuto riscontro dell’acquisto dell’immobile, dei contratti di servizi (acqua, luce, gas), dei requisiti di reddito, della abituale effettiva residenza da me documentata e verificata dagli stessi Vigli Urbani (con tanto di apertura dei cassetti per verificare l’esistenza di biancheria intima (!) e il minaccioso avviso di ulteriore «visite a sorpresa», trattamento analogo ad un delinquente agli arresti domiciliari...). Mi auguro che tali successive visite a sorpresa non siano avvenute proprio durante l’orario lavorativo da me ingenuamente indicato nella domanda, perché diversamente significherebbe un deliberato tentativo di trovare motivi di rigetto alla mia domanda e più genericamente obbligare il cittadino a non lavorare per ottenere la residenza.


Che fare? Attendere di entrare in pensione e procedere a certificare la mia presenza a Levanto tramite giornaliera firma dai Carabinieri? Oppure arrendermi definitivamente all’idea di pormi agli arresti domiciliari (con provviste abbondanti e copiosa abbondanza di biancheria intima) per vedere riconosciuto un mio - sulla carta - inalienabile diritto? Cordiali liberalissimi saluti

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