Oggi si presenta all'essere umano un potere di trasformazione della sua stessa natura che un tempo si esercitava sulle cose, non sulle persone. Si è compiuta così la parabola culturale che va dalle origini della civiltà occidentale al nostro tempo. Mai un greco della classicità avrebbe pensato di poter modificare la natura: la sua idea di vita giusta era vivere in sintonia con il ciclo naturale. Sarebbe stata una violenza modificare il corso di un fiume, cambiare la configurazione di una collina per piegarla a un proprio vantaggio; le città venivano originariamente immaginate come forme che prolungavano la realtà naturale senza violarla. Grandi matematici, i greci non avevano mai pensato di applicare la perfezione del calcolo matematico e la precisione della misurazione geometrica per «impadronirsi» della natura. Si viveva nel mondo del «pressappoco», come osserva Alexandre Koyré, perché l'universo della precisione apparteneva alle sfere celesti. Saranno Galilei e Newton a utilizzare il calcolo matematico per controllare e dominare la natura: è la nascita della fisica.
La natura umana, tuttavia, era ancora considerata un organismo immodificabile: si interveniva per curarla, per migliorarla, non per trasformarla demiurgicamente. Questo potere era divino oppure apparteneva alla potenza della natura. Il corpo era pensato con una sua identità organica che per essenza non era modificabile. La scienza delle biotecnologie cancella questo pensiero, perché ha la possibilità d'intervenire nella struttura stessa dell'essere vivente: nel momento in cui si è riusciti a scindere e a ricomporre gli elementi fondamentali di un genoma, s'infrange l'originaria identità dell'essere umano, compiendo, appunto, quello stesso intervento di riduzione della natura al potere dell'uomo, che si realizzava attraverso la fisica newtoniana.
Dunque, così si definiscono drammaticamente le tappe di questo presunto sviluppo scientifico dell'umanità: all'origine della nostra civiltà l'uomo mai avrebbe pensato di modificare il corso della natura asservendola al proprio potere; la fisica newtoniana gli concede invece questa opportunità; le biotecnologie gli danno la possibilità di trasformare-creare l'essere umano, oltrepassando la sua realtà organica, acquisita nel concepimento con le proprie predisposizioni genetiche, programmando scientificamente l'individuo mediante l'ingegneria genetica.
Dobbiamo considerare quest'ultimo risultato della scienza un accrescimento della libertà dell'uomo? L'analisi del pre-impianto dell'embrione, la maternità per procura, l'intervento sul genoma rappresentano il compimento dell'idea di Sartre che l'uomo è «ciò che si fa» nell'assoluta espansione della sua libertà fino al superamento del limite dell'umano, divenendo egli demiurgo di se stesso?
I comitati di bioetica presentano le loro strategie per condizionare e limitare i margini di potere del nuovo demiurgo. La Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, promulgata a Nizza il 7 dicembre 2000, con ingenua solennità afferma, nell'articolo 3, alcuni principi ovviamente condivisibili ma fragili di fronte al potere della scienza, mai arresasi dinanzi ai problemi morali che nel tempo sono stati sollevati per mettere in discussione le sue procedure e i suoi risultati, e di fronte a un potere economico che, quando riscontra vantaggi, non limita la ricerca. L'articolo 3 della Carta riguarda il «diritto all'integrità della persona», e così afferma: «1) Ogni individuo ha diritto alla propria integrità fisica e psichica. 2) Nell'ambito della medicina e della biologia devono essere in particolare rispettati: a. il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge; b. il divieto delle pratiche eugenetiche, in particolare di quelle aventi come scopo la selezione delle persone; c. il divieto di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro; d. il divieto della clonazione riproduttiva degli esseri umani».
Come si osserva, i due problemi cruciali, e correlati, sono l'eugenetica e il corpo considerato fonte di lucro. Jürgen Habermas, riflettendo su questi problemi, aveva messo in luce una sfida paradossale tra scienza ed etica: quando cerchiamo di circoscrivere gli interventi di ingegneria genetica (scienza) per escludere quelli di eugenetica (etica) ci troviamo di fronte a confini difficilmente determinabili, mentre avremmo bisogno di confini precisissimi per stabilire ciò che è cura della malattia e ciò che invece è eugenetica. Questo argomento diventa un punto a favore di quella concezione libertaria che rimette le decisioni scientifiche alle valutazioni individuali con il risultato di affermare un diritto personale che sovrasta i fondamenti naturali della vita. «Nella diagnosi del reimpianto dell'embrione» sottolinea Habermas «risulta già oggi difficile rispettare i confini che separano l'eliminazione di predisposizioni genetiche indesiderate dalla ottimizzazione di predisposizioni desiderabili». Ciò mette in gioco il rapporto tra quel rispetto dell'integrità fisica della persona, evocata dalla Carta di Nizza dunque eticamente e giuridicamente vincolante , e la dotazione genetica originaria della persona.
La distinzione tra gli interventi di cura e quelli di eugenetica può essere affidata alla legislazione politica? E se questa fosse, appunto, la risoluzione del problema, su quali principi etici si baserebbe la legislazione politica per disciplinare la problematica delle biotecnologie? Sappiamo che esistono centri di ricerca che lavorano per riprodurre, clonare organi umani, senza ovviamente avere l'autorizzazione di legge per tali ricerche. E conosciamo prese di posizione di scienziati che, senza scrupolo alcuno, parlano di controllo dell'evoluzione. È evidente che in questi centri di ricerca ciò che viene innanzitutto trasformato è la percezione culturale della vita umana. Questo significa che qualsiasi legislazione non potrà che drammaticamente inseguire e cercare di mettere ordine a tale mutamento di visione della vita dell'uomo. Allora la domanda è: come intendiamo pensare noi stessi? Come possiamo esistere in una comunità morale che considera, per principio, le persone nella loro «integrità fisica e psichica» (cioè determinata dal suo naturale patrimonio genetico), mentre la ricerca scientifica (in particolare le bioingegnerie) tende a ignorare o rifiutare tale principio? Oppure, la domanda più radicale è se noi intendiamo esistere in una comunità morale che ha a suo fondamento quel principio o vogliamo superarlo insieme a ogni idea di morale, come invitava Nietzsche, il che significherebbe, appunto, il trionfo della volontà di potenza: «Sapete che cos'è per me il mondo? Un mostro di forza senza principio e senza fine... Questo mondo è la volontà di potenza e nient'altro. E anche voi stessi siete questa volontà di potenza e nient'altro».
Non è un caso che, tutte le volte in cui si pone un problema relativo all'opportunità o meno di intervenire per curare malattie ereditarie con procedure di ingegneria genetica, si scateni un dibattito manicheo tra progressisti e conservatori, un dibattito sostenuto da persone che in genere hanno poca o nessuna competenza ma che tuttavia si sentono in dovere di difendere la propria opinione, perché questa rispecchierebbe la libertà del proprio pensiero etico. E neppure è un caso che, dalla parte dei conservatori, si trovino coloro che hanno una fede religiosa: posizione apparentemente conservatrice, in realtà antagonista al relativismo progressista del «fai da te» etico.
Oggi la religione si presenta come una difesa culturale della nostra tradizione umanistica contro un postumanesimo scientista, e se nel nostro Occidente laico e secolarizzato non ci fosse ancora un sentimento religioso scomparirebbe qualsiasi dialettica sull'opportunità o meno di servirsi della biogenetica per la cura dei malati. Ed è sempre questa dialettica a porre il problema morale con cui si confronta la visione laica della vita, rievocando, al riguardo, una sfida ideale tra il pensiero di Guénon e quello di Sartre. Non affermava Guénon che, se in Occidente si ricostituisse lo spirito della tradizione, esso sarebbe religioso, e consentirebbe di ritrovare il fondamento etico dell'uomo con la storia del mondo? Sartre, invece, fiducioso nella possibilità di un umanesimo laico, non sosteneva che l'uomo e soltanto l'uomo è legislatore di se stesso? «L'esistenzialismo» dichiarava con orgoglio «non vuole essere ateo in modo tale da esaurirsi nel dimostrare che Dio non esiste; ma preferisce affermare: anche se Dio esistesse, ciò non cambierebbe nulla; ecco il nostro punto di vista. Non che noi crediamo che Dio esista, ma pensiamo che il problema non sia quello della sua esistenza; bisogna che l'uomo ritrovi se stesso e si persuada che niente può salvarlo da se stesso, fosse pure una prova valida dell'esistenza di Dio.»
Questo progetto di un umanesimo ateo non si realizza nella prospettiva pensata da Sartre; piuttosto viene sconfessato dalla capacità dell'uomo di essere demiurgo di se stesso servendosi di una libertà assoluta che può diventare una mostruosa manifestazione della sua volontà di potenza in grado di cambiare a proprio piacimento il genere umano (insomma, l'umanesimo sartriano soccombe di fronte alla visione nichilista nietzschiana).
Per contrastare laicamente questa deriva nichilista dell'uomo demiurgo di se stesso, i principi etici dei vari comitati di bioetica sono necessariamente molto generali per poter raccogliere il consenso più ampio: si tratta, però, del consenso del buon senso, e sappiamo che il buon senso, di fronte al fascino della scoperta, alla passione per la ricerca, al potere della scienza e al lucro che ne può derivare, fa sempre una figura patetica.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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