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Il retroscena La missione di LeggenDario: non perdere altri voti

RomaSarà anche un filo surreale la scena di Dario Franceschini che nella natia Ferrara giura sulla Costituzione, manco l’avessero eletto presidente degli Stati Uniti o perlomeno della Repubblica italiana, e non capo dello sconquassato Partito democratico.
Ma in fondo, con quel primo gesto molto veltroniano, il neo-eletto segretario dà il via a una lunga campagna elettorale dalla quale dipendono non solo le sorti del Pd e anche la sua poltrona. Campagna elettorale e basta: non ci sarà altro, nei prossimi mesi del giovane leader. Che certo non si prefigge alcun ambizioso obiettivo di competition con Berlusconi e «sfondamento» nell’elettorato moderato, come fece Walter Veltroni un anno fa: «Ormai è chiaro che dall’area maggioritaria saldamente presidiata da Berlusconi non scapperà nei prossimi mesi neppure un voto», dice Giorgio Tonini, uno dei principali consiglieri del leader dimissionario. E dunque a Franceschini tocca il compito di concentrarsi tutto sul suo elettorato, di recuperare e motivare chi ha già votato Pd e lo ha portato al 33% un anno fa. Al giovane post-Dc tocca quindi spostare a sinistra l’asse del Pd, insistere sui tasti dell’antiberlusconismo, inaugurare una stagione di opposizione aspra e combattiva per evitare che gli elettori scappino verso Di Pietro o la sinistra radicale, o che restino a casa.
Quindi si andrà giù di Costituzione, antenati partigiani, campagne di mobilitazione contro le iniziative del governo. Fino a giugno. Se alla fine il risultato non sarà troppo cattivo e le perdite contenute, Franceschini si presenterà al congresso di ottobre come segretario in cerca di riconferma, con buone chance.
La partita, per lui, è questa. Certo nel frattempo dovrà tenere buone le varie anime, mantenere una facciata di unità ed evitare quel lavorio ai suoi danni e quella continua «delegittimazione» cui è stato sottoposto Veltroni. In campagna elettorale, e con lo spettro dell’estinzione davanti, sarà forse più facile. Per ora a dargli una mano sono in tanti: Marini e i Popolari, ringalluzziti dalla conquista della guida del partito; Piero Fassino che si è ritagliato un ruolo di mediatore e di «king maker» rifiutando incarichi per sé (ma caldeggiando il fido Maurizio Migliavacca per il ruolo chiave dell’organizzazione); sindaci e segretari regionali che ha promesso di coinvolgere nel gruppo dirigente e nella gestione del partito. Lo sostiene Veltroni, e i suoi nel partito, convinti che, dopo Walter, nessun altro Ds della vecchia guardia possa fare il capo del Pd, pena la sua dissoluzione. E i dalemiani? Per ora stanno a guardare. «Aspettiamo e vedremo», dice sibillino Nicola Latorre. E Pierluigi Bersani? «La mia candidatura resta in campo», assicura lui.
Ma l’improvvisa accelerazione imposta dalle dimissioni di Veltroni ha mutato lo scenario, il «dalemone» come lo chiamano gli amici di Walter: un Pd logorato che arriva alle Europee e perde, Veltroni che getta la spugna e Bersani che raccoglie il testimone e «ricrea i Ds», allargati alla sinistra esterna, con fuoriuscita dei cattolici moderati.

Tant’è che gira la voce che Bersani, in attesa dell’autunno, punti ad un ruolo visibile e di peso: la poltrona di capogruppo del Pd alla Camera, ora occupata da Antonello Soro, franceschiniano di stretta osservanza.

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