Quando ieri Emma Marcegaglia si è resa conto che la sua intervista al Sole 24 Ore veniva cavalcata dal centrosinistra e dai finiani in chiave anti-governativa, piuttosto che anti-premier, le sono cadute le braccia. Gli applausi arrivati da Urso come da Poli Bortone e da Damiano come da alcune componenti della Cgil, si allungavano sul presidente di Confindustria come un abbraccio letale: l’ultimo dei risultati che avrebbe voluto ottenere. Sta di fatto che, nel giorno in cui Napolitano stoppava il voto anticipato dalle colonne dell’Unità e Montezemolo bocciava il governo Berlusconi, l’uscita di Marcegaglia - affidata alla penna del direttore del quotidiano confindustriale, Gianni Riotta - finiva giocoforza nello stesso blocco anti governativo. Come se anche gli industriali si schierassero nel gruppone. Un risultato paradossale, dal momento che l’intervento era stato pensato proprio per prendere le distanze dal suo predecessore Montezemolo, con il quale da tempo, si sa, non corre buon sangue. Così per tutto il giorno Marcegaglia si è tenuta in contatto con i più stretti collaboratori e consiglieri.
La prima preoccupazione confidata ai suoi è stata proprio quella di venire strumentalizzata da chi, in questa fase, ha il solo interesse di indebolire l’esecutivo. Mentre bisognava veicolare il pensiero ortodosso degli industriali. Che è un altro: la legislatura non va interrotta perché un voto immediato, piuttosto che un governo di transizione che porti alle elezioni, non sono visti come una soluzione per la stabilità. Il rischio di un Senato in bilico, tipo ultimo governo Prodi, è uno scenario che Confindustria, a torto o a ragione, teme. Secondo punto: Montezemolo boccia il governo; al contrario Confindustria riconosce all’esecutivo di aver operato con scelte fondamentali: dal rigore di Tremonti sui conti, alla fermezza di Sacconi nella gestione degli ammortizzatori sociali; dalla determinazione di Brunetta nella pubblica amministrazione, all’opera di semplificazione burocratica di Calderoli (a partire dalla conferenza dei servizi), fino alla riforma della Gelmini.
Ma - e questo è il punto - non basta: va ritrovata la spinta propulsiva del 2008 quando i numeri della maggioranza nelle due Camere aprivano le porte a una straordinaria stagione di riforme.
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