Un ribelle contro l’Italia senz’anima

«Vorrei essere un talebano, un kamikaze, un afghano, un boat people, un affamato del Darfur, un ebreo torturato dai suoi aguzzini, un bolscevico, un fascista, un nazista. Perché più dell’orrore mi fa orrore il nulla». Sono parole tratte dal nuovo libro di Massimo Fini (Senz’anima, Chiarelettere pagg. 472, euro 15), uno zibaldone di articoli degli ultimi trent’anni (1980-2010). Una vera e propria storia d’Italia, vista dalla particolarissima prospettiva di Fini. Senz’anima è il nostro Paese, in preda agli aspetti deleteri della modernità.
Massimo Fini è un grande giornalista. Ma anche un ottimo scrittore. Infatti i suoi libri sono sempre libri veri, siano essi raccolte di articoli o saggi o romanzi. (Ne cito un paio per tutti, la biografia capolavoro Nietzsche e l’affilato Vizio oscuro dell’Occidente, entrambi editi da Marsilio). Qui le idee forti sono le seguenti. L’Italia, negli ultimi trent’anni, è diventata ricca ma ha perso l’anima, sacrificata al mito del progresso e del benessere. Abbiamo consumato tutto il consumabile, inclusa la nostra umanità. Ora resta la «disperazione di vivere in una società senza grandezza», preda di «una mediocrità quotidiana fatta di pin, cin, di iban, di carte di credito, di bancomat, in cui domina la figura dell’imprenditore, cioè del mercante, che in tutte le culture e in tutti i tempi, prima dell’avvento della Modernità e della Democrazia, era posto all’ultimo gradino della scala sociale». In politica, il periodo tra il 1980 e il 2010 è interpretato come una rivoluzione mancata (sull’onda di Mani pulite e dell’ascesa delle prime Leghe) seguita da una restaurazione avvenuta, protagonista della quale è Berlusconi. La cornice del volume è chiara. A monte, il «nuovo mondo» di Milano Due. A valle, il successo incontrastabile di re Silvio. Le vicende di Tangentopoli e dintorni sono centrali, in tutti i sensi. Ma non bisogna credere che l’antiberlusconismo di Fini affondi le radici nel puro giustizialismo di Travaglio e soci, suoi attuali compagni di strada al Fatto quotidiano.
Infatti Berlusconi è l’emblema, il massimo esponente, la compiuta realizzazione di quel mondo liberale e democratico che Fini condanna come specchietto per le allodole (le allodole, inutile dirlo, saremmo noi cittadini). Un mondo fondato su oligarchie autoreferenziali anche note come partiti. Un mondo alienante perché ci costringe a inseguire oggetti che non desideriamo e valori puramente quantitativi che non possono dare la felicità ma in compenso (si fa per dire) portano alla solitudine.
Là dove Fini vede la costrizione al consumo, si potrebbe piuttosto vedere l’infinita possibilità di scelta (in tutti i campi, anche quello esistenziale) garantita dai sistemi fondati sul libero mercato. La visione di Fini quindi è discutibile, anzi: discutibilissima. Ma è una visione con la quale dobbiamo fare i conti.
Non manca, in Senz’anima, la polemica feroce contro i miti della cultura italiana. Tra i bersagli ci sono le idee che vanno per la maggiore, specie se imbevute di retorica. Questo ad esempio il pensiero riservato a 25 aprile e dintorni: «(la Liberazione, ndr) ha ingenerato il pericoloso e non innocente equivoco che l’Italia si sia riscattata in libertà dalla dittatura e dall’occupazione nazista in virtù della Resistenza e della lotta partigiana e non grazie alle truppe angloamericane». Quando poi l’autore passa in rassegna il mondo culturale, lascia a terra molte vittime illustri. «È un filosofo Massimo Cacciari? È un filosofo Marcello Pera? Chi saprebbe dire di un loro pensiero?». Il «tanto decantato» Bobbio finisce nella schiera dei «modesti sistematizzatori» con Veca, Giorello, Viano e Givone. Severino ha sì un pensiero ma «lo ripete identico di libro in libro da 35 anni, mentre potrebbe essere condensato in una riga e mezzo». Se il presente non incanta, il passato non sempre esalta. Da un lato nei confronti dei pochi non allineati a sinistra scattò una «discriminazione feroce». Dall’altro vi fu la sovraesposizione «a volte addirittura comica» dei compagni. Solo così si spiega «la beatificazione di autentiche nullità come Guttuso» o «la patente di grandi scrittori attribuita a onesti operatori culturali come Pavese, Vittorini, Calvino». «Un liceale della regia» come Nanni Moretti fu subito portato in palmo di mano.

Zeffirelli, Jacopetti e Olmi furono invece a lungo emarginati. Quando stronca, Fini mette sempre nel mirino un pezzo grosso, un potente o sedicente tale. Senza paura. Come potete leggere nell’articolo pubblicato in questa stessa pagina.

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