La storia delle pittura medievale, fatte salve alcune eccezioni, è stata scritta sulle pareti delle grandi chiese romaniche e gotiche da una folta compagine di artisti anonimi, ma spesso tanto ben riconoscibili nella loro identità stilistica da consentire di riunire varie opere affini sotto nomi convenzionali, coniati sulla base del luogo di attività del maestro o delle caratteristiche più tipiche delle immagini da lui prodotte. Roberto Longhi e Federico Zeri, maestri nel campo dell’indagine filologica, sono stati fra i più prolifici inventori di nomi convenzionali ancora oggi in uso, a meno che le ricerche d’archivio non abbiano consentito di sciogliere l’anonimato, attribuendo una identità certa all’artista in questione.
Nell’area di confine fra le Marche e l’Abruzzo, a cavallo fra lo Stato della Chiesa ed il Regno di Napoli, si incontrano nelle imponenti chiese gotiche i segni di una straordinaria produzione figurativa, animata dal fervore degli ordini religiosi che nel Trecento fecero a gara per ornare le loro chiese di cicli pittorici: i Francescani, i Domenicani, gli Agostiniani, i Farfensi, spesso economicamente sostenuti dai notabili del luogo, ingaggiarono maestranze locali e forestiere capaci di declinare gli eventi suggeriti dalla devozione locale con un linguaggio di facile presa comunicativa. E proprio da uno di questi suggestivi edifici gotici, la chiesa di santa Maria delle Rocca ad Offida in provincia di Ascoli Piceno, può prendere avvio il nostro percorso alla ricerca di una identità perduta, quella del misterioso autore degli affreschi trecenteschi che ornano le pareti della monumentale prepositura farfense la cui mole, alta e slanciata, poggia in precario equilibrio su un sottile sperone di roccia che sembra franare sotto il peso stesso dell’edificio, come nei secoli passati sono crollati per la fragilità del luogo il convento e gli altri annessi monastici. Fra la selva di colonne in laterizio che popolano la grande cripta della chiesa offidana si aprono due cappelline affrescate con le storie di santa Lucia e di santa Caterina d’Alessandria, realizzate negli stretti spazi desinenti a cuspide allungata delimitati da cornici lapidee dipinte ad imitazione delle tarsie marmoree, che costituiscono una delle più complete rappresentazioni della vita delle due sante secondo la tradizione agiografica divulgata dalla Leggenda Aurea. Riferite inizialmente ad Allegretto Nuzi e successivamente alla scuola di Andrea da Bologna, le storie in oggetto sono state assunte da Ferdinando Bologna come riferimento eponimo per ricostruire l’attività di un anonimo maestro attivo fra la prima e la seconda metà del XIV secolo nelle Marche meridionali e nell’Abruzzo teramano. Nel corso dell’ultimo ventennio, vari interventi hanno contribuito ad allargare il corpus delle opere del Maestro di Offida, delineando una singolare personalità che prende avvio presso la bottega di un altro anonimo pittore, il Maestro del Polittico di Ascoli, integrandone gli assunti assisiati e riminesi sulla base di un aggiornato confronto con i prodotti figurativi dell’area angioina. Il ciclo di Offida è databile fra il 1360 e il 1367, come si evince da un documento recentemente collegato alla commissione degli affreschi da parte del priore Marino Armanduzi: lo stile del maestro appare a questa data già compiutamente definito e si ravvisa una inclinazione a narrare in modo ricco e dettagliato, indugiando nella descrizione degli abiti sontuosi indossati dai protagonisti, secondo uno spirito già orientato verso il tipico eloquio protocortese che caratterizza anche altre impegnative prove dell’artista a Montefiore dell’Aso, a Pedara di Roccafluvione, ad Appignano del Tronto e nella città di Ascoli Piceno nelle chiese di san Tommaso, san Pietro Martire e san Vittore.
Molto nutrito è il numero di opere attribuito al Maestro di Offida nei territori del vicino Abruzzo grazie agli studi di Ferdinando Bologna e di Pier Luigi Leone de Castris che hanno contribuito a chiarire lo stile dell’artista e la sua evoluzione nel tempo attraverso un serrato confronto fra i dipinti murali e le poche opere su tavola che gli vengono riferite, queste ultime giunte sino in Basilicata, a Tursi, dove nella chiesa di santa Maria della Rabatana si conserva un trittico portatile assai prossimo ai modi dell’anonimo maestro. Proprio l’estensione e la qualità delle sue opere induce a cercare il vero nome del Maestro di Offida la cui nascita, stando alla presenza prevalente dei suoi affreschi, dovrebbe essere collocata nelle Marche meridionali o in Abruzzo ed appare particolarmente suggestiva l’ipotesi avanzata dal Leone de Castris che propone di identificare l’artista con il celebre pittore Luca d’Atri, maestro assai celebrato nella città abruzzese. Luca da Penne lo ricorda come pittore eccelso del suo tempo al pari di Giotto e la presenza di numerosi affreschi riferiti in passato al Maestro di Offida tanto nella Cattedrale di Atri quanto in centri vicini sembra avvalorare l’ipotesi di chiamare con il nome di Luca da Atri l’anonimo frescante sin qui ricordato con il toponimo della città marchigiana.
Certamente se qualche ulteriore indizio documentario o la lettura di nuove iscrizioni apposte sulle pareti dipinte dovessero confermare a Luca d’Atri la vasta produzione un tempo riferita al Maestro di Offida si tratterebbe di un avanzamento di non poco conto nell’ambito degli studi storico-artistici di una vasta area che, a dispetto di un confine che la divideva da un punto di vista amministrativo fra il Regno di Napoli e lo Stato della Chiesa, era tuttavia connotata da una cultura figurativa comune, fondata su analoghe dinamiche economiche e sociali.Stefano Papetti
Conservatore delle collezioni comunali di Ascoli Piceno e docente di Museologia all' Università di Camerino
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