Alla ricerca del tesoro di Alarico

Avrà ragione lo storico latino di origine gota Giordane, autore del "De origine actibusque Getarum", oppure il poeta e drammaturgo tedesco August von Platen-Hallermünde che morì in Sicilia nel 1835? Ancora oggi il tesoro di Alarico è avvolto dal mistero

Alla ricerca del tesoro di Alarico

Avrà ragione lo storico latino di origine gota Giordane, autore del «De origine actibusque Getarum», oppure il poeta e drammaturgo tedesco August von Platen-Hallermünde che morì in Sicilia nel 1835? Oppure, ancora, il “terzo incomodo” Olimpiodoro, storico bizantino? Tra gli scritti lasciati dai primi due “letterati” c’è un arco temporale di quattordici secoli, ma entrambi sono considerati fonti attendibili a proposito di un mistero che continua ad affascinare - e dividere - gli studiosi: il mitico tesoro di Alarico. Il re dei Goti, come si legge sui libri di storia, espugnò Roma nell’agosto del 410 dopo Cristo. Dopo un lungo assedio Alarico mise a ferro e fuoco la città, saccheggiandola di ogni ricchezza e poi ripartì verso il Sud per giungere in Calabria, da dove voleva raggiungere l’Africa passando per la Sicilia. Ma una tempesta fece naufragare le navi sulle quali si erano imbarcati i barbari e Alarico preferì attendere in Calabria il ritorno della bella stagione per affrontare il viaggio.

Ma poco dopo si ammalò (secondo un’altra versione fu colpito da una lancia nemica) e morì. I suoi dignitari decisero di seppellirlo con tutti gli onori nel letto del fiume Busento assieme al suo cavallo, assieme alla sua armatura e al suo tesoro. Per impedire che la tomba del grande re dei Goti venisse profanata, si deviò il corso del fiume utilizzando migliaia di schiavi che al termine dei lavori furono trucidati allo scopo di non lasciare nessun testimone della sepoltura. Tutte queste “notizie” si desumono da alcuni passaggi delle opere di Giordane che, a sua volta, aveva tratto ispirazione dalla «Historia Gothica» di Cassiodoro di Squillace, braccio destro di Teodorico. Le stesse «fonti» furono probabilmente utilizzate, molti secoli dopo, dal conte von Platen che nel 1820 scrisse «Das Grab im Busento» (La tomba nel Busento), opera tradotta successivamente dal nostro Giosuè Carducci. L’ipotesi che smentisce, invece, la presenza del tesoro di Alarico in Calabria è quella di Olimpiodoro di Tebe che, nel descrivere le nozze a Narbonne in Francia tra Ataulfo (cognato di Alarico, divenuto nel frattempo re dei Goti dopo la morte di quest’ultimo) e Galla Placidia (figlia di Teodosio, fatta prigioniera da Alarico durante il sacco di Roma) descrive fra i doni nuziali, la presenza di una enorme quantità di oro, gioielli e pietre preziose che non poteva che essere parte del tesoro sottratto all’Urbe. La vicenda della sepoltura di Alarico rimase nell’oblio per molti secoli, finchè nella prima metà del Settecento si tornò a parlare della leggenda e monsignor Capecelatro finanziò una campagna di ricerche alla confluenza dei fiumi Busento e Crati che, però, non ebbe alcun esito.

A distanza di quasi due secoli, la «ballata» di von Platen risvegliò improvvisamente l’interesse dei tedeschi che ancor oggi hanno una salda tradizione negli studi romanistici e nelle ricerche di tracce e reperti di antiche civiltà. Nel periodo che precedette la seconda guerra mondiale, per giunta, il mito degli dei Asi e il motto «Deutschland über alles» indussero Hitler a organizzare una spedizione scientifica in Calabria alla ricerca della tomba del re tedesco che aveva, per primo, umiliato l’Impero romano. Il Fuhrer spedì il fido Heinrich Himmler in Italia, ma nonostante le consulenze degli storici tedeschi, gli scavi alla periferia di Cosenza non diedero alcun risultato. La tomba di Alarico rimase ancora un mistero. Ai nostri giorni i cacciatori di antichi tesori si sono organizzati in società specializzate che ricorrono a ogni tipo di tecnologia per riportare alla luce - come è accaduto di recente nella Manica - i cannoni di golette inglesi del diciottesimo secolo. In Calabria, invece, una sorta di “maledizione” sembra gravare sulla leggenda della sepoltura di Alarico. Si deve a due fratelli appassionati di archeologia, Natale e Francesco Bosco, l’ultimo tentativo di chiarire il mistero. Da anni i due, partendo dalla convinzione che la deviazione del Busento non sarebbhe mai potuta passare inosservata, nemmeno nel 410 d. C., hanno individuato un sito poco distante da quello nel quale si sono svolte le ricerche. L’elemento della confluenza dei fiumi c’è, ma si tratta del Caronte all’altezza della confluenza con il Canalicchio (oggi poco più che un torrente).

Il luogo è quello ideale perché si tratta di una vallata deserta che anticamente si trovava nella stessa direzione di un collegamento con il mare. In più Francesco e Natale Bosco hanno individuato una enorme croce scolpita sulla roccia (sicuramente opera dell’uomo) in una località il cui toponimo di origine gotica, «Rigardi», significa, appunto, «osservare con rispetto». Dall’altro lato della vallata, all’interno di due grotte naturali a strapiombo nella roccia, hanno trovato un altare di probabile origine gotica scolpito un po’ rozzamente. Ma l’elemento ancora più interessante, che ha convinto i due appassionati di archeologia di aver scoperto davvero la tomba di Alarico, è che l’altare poggia su uno strato di sabbia di fiume (l’hanno fatta analizzare da un geologo) del tutto innaturale all’interno di una grotta calcarea di origine vulcanica. Stessa storia all’interno della grotta più piccola, dove anche a occhio ci si accorge di camminare su sabbia “riportata”. Nel corso degli anni, Natale e Francesco Bosco hanno tentato tutte le strade possibili e, ovviamente, legali per ottenere il permesso di scavare. Nulla.

Neppure un sopralluogo e i successivi accertamenti della locale Sovrintendenza archeologica hanno chiarito il mistero del tesoro di Alarico. I due fratelli calabresi non si sono mai dati per vinti: hanno rivolto suppliche alla presidenza della Repubblica, hanno chiesto l’intervento del ministero dei Beni culturali e della Sovrintendenza centrale. Ma tutti i loro tentativi si sono rivelati finora inutili. Come se un impedimento burocratico aleggiasse sulla vicenda impedendo di risolvere il giallo. Una cosa appare certa: anche se nella grotta non c’è il tesoro di Alarico, tutto fa pensare che si possa trovare qualche interessante testimonianza storico-archeologica.

E allora, perché non autorizzare gli scavi? E pensare che basterebbero poche migliaia di euro per effettuare un elettro-sondaggio e scoprire se davvero sotto la sabbia, in profondità, si rilevano tracce di metalli...

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