La ricetta anti sprechi: meno enti e più poteri con i sindaci in campo

diMeno province, ma con più poteri. È questa la proposta che mi sento di avanzare nel dibattito sulla possibile abolizione delle province. La battaglia è giusta. È stato chiesto alle famiglie un importante sacrificio per salvaguardare l’Italia dalle minacce degli speculatori; il governo ha responsabilmente delineato una manovra che ci porterà – come chiesto dall’Europa - al pareggio di bilancio entro il 2014. Intanto però si perpetuano sprechi inaccettabili sul fronte delle risorse pubbliche che alimentano caste, strutture, burocrazie e privilegi. E tra le istituzioni su cui occorre una riflessione ci sono proprio le province. Oggi se ne contano 110. Alcune relative a importanti territori e con un alta densità abitativa (la provincia di Varese ha il triplo degli abitanti del Molise). Altre con un numero di abitanti inferiore a città di provincia: Ogliastra e Isernia hanno meno di 90mila abitanti, meno di Torre del Greco o di Cesena. Ridotto anche il numero di comuni: Carbonia-Iglesias ne coinvolge 23, Barletta-Andria-Trani 10, Prato 7.
E i costi? Altissimi. Il 99% delle province spende più di quello che ha. Il 73% dei trasferimenti dello Stato è destinato a dipendenti, spese di rappresentanza e mantenimento, solo il 27% in servizi e investimenti. Ogni ente porta con sé altre strutture parallele: prefettura, questura, comando dei vigili del fuoco, dei carabinieri e della forestale, archivio di Stato, sovrintendenza, dipartimenti provinciali per la commissione tributaria e per la Guardia di finanza. Solo la Banca d’Italia ha evitato in questi anni di aprire sedi in tutte le 110 province: siamo fermi a 95. La Bank of England ha una sola sede e 10 filiali sul territorio del Regno Unito. Qui si annida il vero sperpero di denaro pubblico costituito da sedi, apparati, dirigenti, quadri e consulenti a volontà.
Si impone una seconda riflessione: in alcune realtà la provincia può assicurare una migliore efficacia ed efficienza nel dare risposta ai propri territori, essendo una struttura certamente più vicina alla gente rispetto alla Regione. Il sindaco di Livigno avrà più facilità, anche solo in considerazione delle distanze, ad accordarsi con l’amministrazione provinciale di Sondrio piuttosto che rivolgersi alla Regione. Non solo: molte province sono parte della nostra storia in quanto istituzioni con un’identità e una storia antiche. È dunque a mio giudizio sbagliato affermare l’inutilità delle province in sé o la necessità della loro totale abolizione.
Quale dunque la mia proposta? Primo: stabilire un numero minimo di 400/500mila abitanti per la sopravvivenza di una provincia. Tale criterio consentirebbe un taglio di quasi 50 enti, con una forte economia in termini di mancate spese e una rilevante massa economica da poter utilizzare per investimenti o per ridurre la pressione fiscale. Inoltre: 50 prefetture in meno, 50 questure in meno, 50 comandi dei carabinieri, della polizia, della forestale, dei vigili del fuoco, della Guardia di finanza in meno, ecc.
Secondo: aumentare il loro potere, allargando le competenze esecutive, contrastando così la tendenza verso un neo centralismo regionale consolidatosi dopo la riforma costituzionale della sinistra nel 2001 e fornendo più strumenti per essere operativamente a fianco dei sindaci e delle comunità locali. In questo modo i cittadini potranno più facilmente verificare nella quotidianità l’efficacia dei progetti realizzati dagli amministratori provinciali – che avranno sì più poteri, ma anche più responsabilità - e che per questo saranno premiati o condannati dagli elettori.
Nutro una speranza: un’Italia di 60 province autonome come quelle di Trento o Bolzano, con un presidente eletto e conosciuto e un consiglio provinciale composto dai sindaci del territorio, vera trincea della democrazia popolare.

Il nostro Paese ha bisogno di coraggio, per cambiare e per proseguire sulla strada del rinnovamento, assegnando davvero più autonomia ai territori e abbattendo spese per burocrazia e caste. Solo così si potrà realizzare un vero federalismo, nell’ottica di quel principio di sussidiarietà tante volte enunciato e che ancora aspetta una concreta attuazione.
*Senatore e coordinatore lombardo del Pdl

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