L’antipasto l’ha preparato delicatamente Romano Prodi, il giorno prima. Declamando, tutto sommato, un’ovvietà: «Il mercato non può tutto. Anche i legami sociali, la coesione fra persone, sono la premessa della crescita di un Paese». Tutti d’accordo.
Il pranzo, luculliano, visto che a spese dei privati, l’ha servito invece il fido Paolo Ferrero: anche i volontari usufruiranno di 150 ore l’anno di permessi retribuiti. Il che tradotto significa che lo Stato chiederà alle aziende di pagare i propri dipendenti per svolgere un servizio pubblico.
L’idea, come spesso accade negli ultimi tempi, è di Paolo Ferrero, Solidarietà sociale. «Come avviene per gli studenti lavoratori - spiega durante la terza e ultima giornata della Conferenza nazionale del volontariato a Napoli - i volontari potranno usufruire di permessi dal lavoro retribuiti». Applausi scroscianti dai 2182 astanti, in rappresentanza di 1764 associazioni e 418 altri enti. Il ministro rispolvera il modello anni ’70 delle «150 ore», quelle per permettere agli operai di studiare senza rinunciare al lavoro. Ecco. Ferrero pensa che la stessa cosa di possa fare con chi fa volontariato. «È un modello da proporre - dice - perché credo che possa tenere distinto il lavoro dal volontariato. No alle zone grigie che sono la madre della precarizzazione, ma sì a riconoscere il valore sociale del volontariato. E il modello delle 150 ore potrebbe essere utile in questo senso». Secondo Ferrero bisognerà studiare una qualche forma di «flessibilità» per il volontario che lavora sul modello delle «150 ore». «Così come allo studio è stato a suo tempo riconosciuta l'utilità sociale anche da parte dell'impresa che si faceva carico del problema accordando al lavoratore dei permessi di studio, anche al volontario va riconosciuta l'utilità sociale del suo impegno».
«Il nostro ministero - spiega poi - deve valorizzare il ruolo sociale della solidarietà sociale. Il volontariato non è una produzione di servizi, ma deve produrre relazioni sociali. Ma il volontariato non deve fare le stesse cose che dovrebbe fare lo Stato, ma piuttosto deve riuscire a provocare una riforma dello stato sociale.
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