Richie Havens: riecco il leone di Woodstock

Antonio Lodetti

Canzone di protesta e ballata folk non passano mai di moda se a interpretarle e Richie Havens, il menestrello che con voce tonante e ispida e con l’ossessivo accompagnamento ritmico della chitarra acustica aprì sulle note di Freedom la gloriosa kermesse di Woodstock. Havens non fa la star; è partito dal Greenwich Village e ha continuato negli anni a cantare le sue ballate venate di sapori afro e di blues. Al Jazz Café di Londra e al Blue Note di Milano il vecchio leone (caffetano chiaro come ai bei tempi, lunga barba ascetica che incornicia il cranio lucido) racconta la sua continua maturazione poetica attraverso i suoi brani originali (la stupenda e recente Way Down Deep) e la rilettura intimista di brani che hanno fatto la storia come Woodstock di Joni Mitchell (famosa anche nella versione di Crosby Stills & Nash). Sa dosare le atmosfere, amplificandone l’impatto emotivo ora con ritmi scatenati (inimitabile il suo stile che sfrutta le accordature «aperte» e costruisce gli accordi con il pollice della mano sinistra) ora con colori pallidi e intimisti (complici i ricami chitarristici di Walter Parks e l’elegante violoncello di Stephanie Winters.

Così la citata Woodstock e Here Comes the Sun di George Harrison assumono un sapore tormentato e cameristico che fa da ottimo contrasto alla selvaggia Freedom - che rinnova l’antico spiritual Motherless Child - e testimonia al pubblico entusiasta (tranne un gruppetto di cretini al Blue Note che ha passato la serata facendo rumore e foto di gruppo con i cellulari) che Woodstock è soprattutto un luogo dell’anima.

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