Ma ricordiamoci di trattarli per ciò che sono

Comunque lo si consideri, il quadro è quello di una convivenza spietata, zeppa di momenti orrendamente contraddittori: io allevo bestie per consumare la loro energia, affaticarle, farle vivere a termine, mangiarle. Se le dichiaro protette, mi tengo il diritto di eliminarle quando creano danni. Giustifico il tutto affermando che questa e non altra è l’economia della natura, che per riformare il rapporto con gli animali dovrei, prima di tutto, riformarmi in quanto essere umano. Allora e solo allora sarò in grado di «pensare» la bestia da un altro punto di vista, conviverci in armonie edeniche delle quali, per ora, ignoro tempi e statuti.
Nell’attesa, potrei almeno smettere di invaderli con la mia umanità, gli animali. Cominciando da gesti minimi: non dire più che il gatto si netta e rinetta perché è pulito quasi come me: in verità, quello si passa la lingua sul pelo per togliersi odori e non lasciare tracce agli olfatti ostili. Da animalista istintivo, vorrei poi credere che il mio cane mi ama secondo un bene incondizionato, esente da contrattualismi. E mi viene difficile, nell’esperienza quotidiana, non pensare che sia vero, e allora l’affetto del Pico (bel nome, per un lupo trovatello... ) sembra essere infinito, gratuito e dunque superare il mio che resta, sempre e comunque, quello di un essere capace solo di scambiare qualcosa contro qualcosa.
Poi, però, mi spiegano che Pico è un bel lupoide. Come tale, data l’indole e la memoria genetica, ripone nel capobranco una fedeltà cieca perché solo con l’obbedienza un gruppo di lupi vive o ha vissuto. E quella stessa fedeltà viene trasferita, dopo cattività millenarie e incroci e nuovi incroci, sul «padrone» (parola che detesto). E dunque, se commetto l’errore di attribuire a Pico qualità umane, lui forse mi restituisce la proiezione facendo di me la sua bestia di riferimento. Insomma: mi vuole o non mi vuole bene? E, soprattutto, dove sta l’affetto e dove stanno, invece, gli stimoli elementari, rispondenti a logiche pregresse di sopravvivenza che non riconosco o rifiuto di vedere?
Mi piacerebbe rispondere: ma proprio quello che tu chiami affetto è per lui legge fondamentale della vita. Dunque, sta al mondo per qualcun altro. E questo essere per altri è, di fatto, amore allo stato purissimo. Lui ne è capace, tu no. Più ci penso, più il mio cane, quello che mi fa da ombra in casa e fuori di casa, è un mistero.
Forse, l’uomo capirà davvero l’animale quando, paradossalmente, non sarà più uomo.

Aspettando la palingenesi dis-umanizzante o ri-umanizzante, un dato, tuttavia, dovrebbe restare saldo: migliori o non migliori o (al peggio) simili a noi, «loro» sono sempre «bestie, ’un ci han lunari». Lo scriveva il Pascoli nei Nuovi Poemetti. Ce ne dimentichiamo spesso, in tante, troppe maniere.

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