Riello: "Io nel Pdl, senza freno a mano"

Il candidato del Veneto: "Sono sempre stato a destra. Intese bipartisan dopo il voto possono servire per fare le grandi riforme". E promette: "Provo a far dialogare Palazzo e industria"

Riello: "Io nel Pdl, senza freno a mano"

Roma - Ettore Riello ama parlar chiaro come il padre Pilade, che lo mise al mondo nel 1956 alla bella età di 60 anni: «Io l’ho sempre chiamato l’Anomalo, era un grandissimo rompicoglioni». Al cugino Alessandro, allora presidente dell’Assindustria veronese, che durante un’assemblea ristretta si rifiutava di farlo intervenire per motivi di regolamento, sibilò: «Se non mi dai la parola, mangio il microfono e ti rovescio il tavolo». Qualora venisse eletto deputato, i cronisti parlamentari avrebbero ciccia per i loro taccuini. Ma prima dovrebbe passare qualche mese. Infatti da 36 ore, da quando il Partito della libertà gli ha offerto la candidatura nella circoscrizione Veneto 2 (Venezia, Treviso, Belluno), l’eloquio del prode Ettore è divenuto insolitamente felpato. «Mi sento sull’orlo di un mondo nuovo, devo capire», si giustifica. E arriva a scomodare la teoria dei frattali, secondo cui ogni cosa presenta una struttura complessa e dettagliata a seconda del livello d’ingrandimento: «Sono un pilota d’elicottero e so per esperienza che dall’alto tutti i terreni sembrano verdi, ideali per un atterraggio morbido. Poi, a mano a mano che scendi, vedi torrenti, rocce, buche, tralicci...».

A capo dell’omonimo gruppo veronese, leader mondiale dei bruciatori e delle caldaie a muro, 2.100 dipendenti, 570 milioni di fatturato, una decina di stabilimenti fra Italia, Polonia e Canada, Ettore Riello ha il Veneto nel Dna: ha studiato a Venezia, ha vissuto a Conegliano, lavora a Legnago e abita a Vicenza con la compagna Luciana Fioravanti, erede dell’azienda di tortellini famosa ai tempi di Carosello, anche se la coppia ama festeggiare i compleanni a Villa Fioravanti, sulle colline di Firenze, con ospiti di riguardo che vanno da Vittorio Feltri a Beppe Severgnini.

Chi l’ha arruolata?
«Il governatore del Veneto, Giancarlo Galan. Erano le 23 di venerdì. “Ne ho parlato col Cavaliere: ci piacerebbe che facessi parte della nostra squadra”, mi ha detto. Sabato alle 14 ho sciolto la riserva».

«Io voglio fare il mio mestiere. È già un bell’impegno». Parole sue, nell’intervista che mi rilasciò nel 2005. Ha cambiato idea in fretta.
«È vero. Ma è cambiato in fretta anche il sistema Paese. Oggi una politica che non sia in relazione con l’impresa non va da nessuna parte. Quindi diventa un bell’impegno far dialogare Palazzo e industria. Ci provo».

Chi glielo fa fare?
«Mi reputo un gran curioso. Sono sempre stato convinto che ci sia del buono al di là della barricata».

Sarà l’anti Calearo.
«Assolutamente no. Se il confronto poggiasse sul dualismo Calearo-Riello, avrebbero dovuto candidarci uno alla presidenza della Repubblica e l’altro alla presidenza del Consiglio. Oltretutto lui sarà in lista col Pd nella circoscrizione Veneto 1, non c’è neppure lo scontro diretto».

Che tipo è Massimo Calearo?
«Dinamico. Vivace. Un po’ ci assomigliamo. A entrambi manca il freno a mano».

Ma è vero che fino a poco tempo fa il suo collega vicentino aveva come suoneria del cellulare l’inno di Forza Italia?
«Non lo so. Mi pareva che fosse la melodia di Fratelli d’Italia. Comunque io mi tengo il vecchio drin del telefono di Meucci. Questa grillaia di suonerie mi fa orrore».

Da un Riello all’altro. A leggere i giornali pareva che il Pdl intendesse candidare suo cugino Andrea, presidente degli industriali veneti, che però ha rifiutato. Diranno che lei è un ripiego.
«Può starci. Ci sono persone che accettano di mettersi in discussione, altre che non lo fanno mai. Tutte le scelte sono rispettabili. D’altro canto i Riello sono tanti. Ho perso il conto, ma credo che ormai siamo almeno una cinquantina. È successo anche in altre famiglie. Penso ai Merloni: Vittorio rimase in Confindustria e Francesco andò a fare il ministro ai Lavori pubblici nel governo tecnico di transizione guidato da Carlo Azeglio Ciampi».

Suo cugino avrebbe trovato appoggio nella stampa confindustriale del Nord Est e nel Corriere del Veneto edito dal padre Pilade. Lei non avrà giornali dalla sua.
«Eh no. Ma è molto più divertente così. Almeno non tireranno in ballo il conflitto d’interessi».

Tre anni fa voleva uscire da Confindustria e ora entra addirittura in un partito. Bella contraddizione.
«La contraddizione esiste a perimetri costanti. Ciò che è buono in un momento storico non è detto che lo sia in un momento successivo. Sono mutati i valori in gioco e la geografia. Va bene la coerenza, però ha ragione anche l’agente 007: mai dire mai. Che ci posso fare se la partita ha cambiato il mazzo?».

In quell’intervista rimproverò a Luca Cordero di Montezemolo «di non essere un imprenditore vero». E aggiunse, brutale: «Sarebbe ora che qualcuno tornasse a rischiare il proprio culo invece di fare ingegneria finanziaria con i soldi degli altri».
«Ora devo riconoscergli il merito d’aver saputo imprimere una svolta decisiva alla crisi della Fiat. Chapeau».

Ma la candidata unica alla successione di Montezemolo, Emma Marcegaglia, secondo lei tira a destra o a sinistra?
«Lo vedremo dai primi passi. Io penso che sia equilibrata. La stimo molto. Sarà un buon presidente».

Mi spiega la ragione per cui non accetterebbe mai di candidarsi col Pd?
«Bisogna essere centristi per avere la propensione a spostarsi da una parte o dall’altra. Io ho sempre tenuto la destra. Difficile targarmi diversamente».

E se poi Berlusconi e Veltroni, costretti dai numeri, dovessero trovare un’intesa per salvare l’Italia?
«Magari! Mi pare auspicabile. Sarebbe un sacrificio di prospettiva. Le grandi riforme sono indifferibili e si possono fare soltanto insieme».

Il candidato premier del Pdl le ha promesso un incarico di governo?
«Non ho presentato richieste di alcun tipo. E i miei contatti con Berlusconi sono molto marginali».

Qual è la priorità assoluta per l’Italia in questo momento?
«Ritrovare competitività. Francia, Germania e Spagna ci danno la polvere. Ma lei lo sa che fatto 100 il netto percepito in busta paga dall’operaio, il costo sostenuto dal datore di lavoro è del 220%? C’è una burosaurocrazia che stritola l’Italia».

Pensa ancora che per combattere l’evasione fiscale basterebbe un’aliquota unica intorno al 30%?
«Sì, e in una logica di progressione ci possiamo arrivare.

Non senza un processo di moralizzazione che contempli la deportazione alla Cayenna per chi non paga le tasse».

La sua compagna che cosa dice della candidatura?
«Dice: “Tu sei pazzo. Pensaci bene, prenditi un po’ di tempo per riflettere”. Ma tempo non ce n’è più».

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