Riforme sfidando l’impopolarità Il Cav imiti Obama

Dopo un anno e due mesi il presidente Barack Obama ha realizzato il cuore del suo programma: la riforma che darà una copertura sanitaria al 95 per cento degli statunitensi. Era la sua grande sfida e l’ha vinta.
Tra poco saranno tre anni che Nicolas Sarkozy è all’Eliseo e, come dimostrano le elezioni amministrative di due giorni fa, i francesi sembrano già stufi di lui o perlomeno del suo modo di governare. Era partito col turbo. Un paio di blitz spettacolari come la liberazione delle infermiere bulgare in Libia, la nomina - lui di destra - di ministri pescati tra gli uomini della sinistra, il vaudeville della sua vita privata: divorzio, matrimonio, pettegolezzi vari. Ma sui programmi ha cincischiato e gli elettori lo hanno punito.
Sono i due estremi con cui il Cav deve confrontarsi. Nell’Occidente prudente e uguale a se stesso, Berlusconi ha rappresentato con Sarkozy e Obama la rottura col passato. Come loro, è stato osteggiato da chi aveva il potere prima di lui e guardato con diffidenza da una parte della popolazione abituata a essere guidata da personaggi sbiaditi e prevedibili. La sua forza, come per Sarkozy e Obama, era la novità. Ma non si resta nuovi in eterno. Lo si è a lungo se si aprono continuamente porte e finestre, si fa entrare aria fresca, si butta all’aria lo stantio di un Paese. Se no, ci si assimila a quello che è sempre stato e si viene a noia.
Con i tempi, il Cav è a metà strada tra gli altri due. Obama è stato il più veloce a mantenere le promesse. Sarkozy ha due anni per farlo. Berlusconi tre. Ma il ritardo complessivo dell’Italia è maggiore degli altri due Paesi e quello del Cav è perciò più inquietante. Deve riformare lo Stato, pacificare il Paese modernizzandolo, dare fiato all’economia.
L’America, ancora una volta, ha mostrato di avere una marcia in più. Forse è il sistema, forse il carattere degli uomini. Obama è quello partito con più svantaggi. Primo nero della storia americana a guidare una nazione imbevuta di spirito bianco ed energia anglosassone, ha dovuto vincere i pregiudizi per essere eletto e il rischio di continui agguati per governare. Pericoli veri come ci ricordano la fine dei due Kennedy e di Luther King. In un anno, Barack ha perso la metà dei consensi, ha lottato contro l’opposizione e parte del suo stesso partito. Gli ha voltato le spalle il grosso dei media e dell’opinione pubblica stanca della guerra irrisolta contro il terrorismo. Ma non si è fatto intimidire dai sondaggi e ha aperto anche il fronte interno per imporre la riforma sanitaria. Questo è governare. Forse non sarà rieletto e sono già in molti a riscaldare i muscoli per sostituirlo. La sua impronta però l’ha già lasciata. Migliaia di malati avranno meno affanni e un po’ della mitezza europea - era questo il suo intento - è stata trasfusa nel regno del fai da te e dell’individualismo esasperato delle origini americane.
I due politici europei sembrano invece prigionieri dei tempi lunghi. È la tara del nostro continente: affidare alle generazioni quello che in Usa (e talvolta in Gran Bretagna, vedi Margaret Thatcher) fa uno solo nei pochi anni del suo mandato. Sarkozy riposa sugli allori come se avesse esaurito il proprio compito nell’essere una novità rispetto ai parrucconi che lo hanno preceduto. Il Cav si lascia intimidire dalle resistenze. Quelle vere della magistratura che trasforma in reato ogni fiato che emette e quelle dell’opposizione che urla alla tirannia per ogni intenzione che esprime. Ma si lascia frenare anche dagli ostacoli di cartapesta come le scenografie di Annozero, le denunce al ciclostile della Repubblica o dell’Espresso, i sermoncini bisettimanali di Gianfranco Fini.
Il guaio del Cav è il suo timore dell’impopolarità. Abituato ai successi di imprenditore, al perfetto funzionamento della macchina aziendale, al signorsì dei dipendenti, non sopporta i dissensi gridati del Palazzo né i trabocchetti che ne sono l’anima. Si dice che la politica sia una guerra fatta con altri mezzi. È assolutamente vero. Il Cav se ne faccia una ragione. Per fare politica sul serio bisogna essere corazzati come un centurione. Non è un caso se per gli americani avere un presidente reduce da qualche conflitto è considerata una garanzia. Un tempo era così anche da noi. Prima conquisti la Gallia, poi governi Roma. La politica è crudele. Bettino Craxi, impossibilitato dal clima ostile a difendersi, è riparato in Tunisia per non finire in gattabuia. Anche Giolitti, indagato per la Banca Romana, fuggì a Londra in attesa che si calmassero le acque. Palmiro Togliatti subì un attentato e per poco non ci restava. Per tacere di Aldo Moro.
Nel mesto panorama italiano, il Cav è l’unico che abbia una visione: economia liberale, uguaglianza dei poteri, semplificazione burocratica, meno invadenza dello Stato, riduzione dei privilegi dei pochi per liberare le energie di molti. Per questo è stato votato e perciò ha più consenso di chiunque. Non vorrà perdere tutto per mancanza di carattere né deludere i suoi elettori che proprio sul suo temperamento fanno affidamento per migliorare lo stato delle cose.
Ha risolto bene il problema dei rifiuti napoletani e l’emergenza post terremoto dell’Aquila. Con questo ha dato prova di capacità organizzativa, non politica. I bisogni erano evidenti e nessuno ha osato mettersi di traverso. Ha preso facili applausi. Ma non era e non è questo il suo banco di prova. Le somme sul suo valore si potranno tirare solo quando avrà affrontato le riforme controverse. Quelle che toccano gli interessi contrapposti tra chi vuole l’immobilismo e chi sceglie in futuro.

È questo che distingue i poteri costituiti, i sindacati, i già sistemati da quelli che aspettano il loro posto al sole, un Paese più moderno, lo sfogo di nuove energie. Il Cav è sul ciglio: o si arrende all’apparato o pensa al domani.
Obama ha scelto e ha messo al sicuro il proprio nome. Il Cav lo imiti o offuscherà il suo.

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