Riformismo in cerca d’identità

Una causa, una proposta, un’idea, per avere una valenza politica, deve essere conflittuale: deve cioè originare, nel momento stesso in cui viene proposta, un riallineamento amico/nemico. Se tale asserzione è vera, risulta sorprendente - o meglio, sintomatico di un’anomalia tutta italiana di questa Seconda Repubblica - la fortuna del tutto inusitata di cui godono idee, proposte, orizzonti ideali politicamente neutri o, per lo meno, tendenzialmente votati a travalicare, invece che a marcare i confini. Una democrazia dell’alternanza poggia su un accordo sui fondamenti e su uno scontro sulle idee programmatiche. Da noi finisce per fondarsi su un disaccordo sui fondamenti ed un pasticciato inciucio sulle idee.
Sintomatica la fortuna improvvisa e folgorante dell’idea riformista: fortuna che itera quella liberale, stella anch’essa salita improvvisamente nel firmamento della politica e subito declinata, rivelando in tal modo la sua inconsistenza politica.
Si parla e si straparla di riformismo ma non è mai stato chiarito a cosa ci si riferisca se non ad una generica attenzione alle ragioni dell’equità sociale. Un riformismo che appare un po’ come «il grande resuscitato», visto che è stato riesumato dopo essere stato - e da lungo tempo - pietosamente dichiarato morto e debitamente sepolto.
Per tutta la prima metà del Novecento la storia della sinistra si risolve nella contrapposizione/irriducibilità di riformismo e rivoluzionarismo. Riluttante a separare i suoi destini dalla vulgata marxista imperante, si è rifugiato nell’ambiguità di un’azione timidamente volta a promuovere riforme che non ha avuto la forza politica di attuare e, ancor meno, la forza morale di rivendicare come tratto distintivo suo proprio.
Lì si è attestato e lì è restato per tutta la stagione in cui la sfida della sinistra occidentale è stata, non l’impossibile salto rivoluzionario verso il socialismo senza classi, ma la possibilissima (altrove) costruzione di un Welfare che allargasse la cittadinanza politica alla cittadinanza sociale. Da ultimo, è storia dei nostri giorni la riscoperta del riformismo da parte del centrosinistra che si è mostrato tuttora incapace di dotarlo di una propria espressione politica unitaria e coerente.
La parola riformismo nel frattempo ha perso ogni qualificazione politicamente pregnante. Non è più l’implementazione del welfare classico. Non è più, a maggior ragione, la vecchia via del metodo gradualista per avvicinamento al fine socialista. Non è più nemmeno il semplice progredire verso un indefinito quanto immancabile progresso. Se non si vuole affogare in una qualificazione di riformismo come, tout court, «politica di riforme» quali esse siano, e cioè se non si vuole risolvere il riformismo dentro l’onnicomprensiva, ma anodina categoria di cambiamento, dove cambiamento risulta a questo punto assiologicamente reversibile e quindi politicamente ininfluente oppure, paradossalmente, nella difesa ad oltranza delle riforme attuate e quindi in una sorta di reformatio in pejus, per usare le parole di Luigi Covatta; se non si vuole che anche la parte avversa lo possa issare tranquillamente tra le proprie insegne (come ha prontamente fatto Berlusconi prospettando per il futuro del centrodestra una sistemazione nella «casa dei moderati e dei riformisti») dovrebbe dotarlo di un ancoraggio meno labile.

Altrimenti riformismo si riduce a logo semplicemente evocativo di una sinistra sdoganata, ma ancora incerta sulla strada da imboccare, sospesa - com’è - tra un presente che le si offre a condizione che abbandoni il proprio passato ed un passato che urge nella coscienza del suo popolo, anche se esso non è più proponibile e, ancor meno, praticabile.

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