Rimborsi elettorali: così i micro-partiti divorano 11,5 milioni

Il banchetto della politica: una cinquantina le liste beneficiate dalle grandi formazioni nazionali. Basta l'1 per cento per spartirsi la torta

Rimborsi elettorali: 
così i micro-partiti 
divorano 11,5 milioni

Roma - Quali spese dovrà mai sostenere il partito «Insieme per Bresso» per giustificare un finanziamento pubblico di circa 110mila euro ogni anno? E l’«Unione sudamericana emigrati italiani» con 9mila, la lista «Associazioni italiane in Sudamerica» per 63mila euro, «l’Aquilone del presidente» quasi 300mila, la «Civica Piero Marrazzo» che incasserà oltre 300mila euro almeno sino alle prossime regionali? Non hanno sedi né dipendenti, non stampano l’ombra di un bollettino e hanno già abbondantemente coperto i costi reali sostenuti in quei quaranta giorni di campagna elettorale a supporto dei partiti veri, quelli nazionali, che oltretutto si facevano carico delle spese più forti. E però partecipano anch’essi al gran banchetto del finanziamento pubblico della politica, a dimostrazione che nonostante gli esorcismi contro il bipartitismo, le paure che il Pdl di Berlusconi e il Pd di Veltroni finiscano col fagocitare ogni cespuglio, il nostro è ancora il Paese del particulare e dei mille campanili. Piccolo sarà anche brutto, ma rende. Sono una cinquantina, i partiti che non ci sono ma che consumano come se ci fossero. Tutto regolare ovviamente, ognuno incassa la sua tranche annuale in proporzione alla forza dimostrata nelle urne, i più in quelle delle elezioni regionali, alcuni sommandola a quella delle europee, altri fondando il titolo nel parlamento nazionale. Ogni anno l’assegno è di 3.818.745 euro. Che va moltiplicato per tre (gli anni che mancano alla fine naturale della legislatura da poco conclusa). Totale: 11,5 milioni di euro meno qualche spicciolo. Tutto regolare ma illogico, frutto perverso dell’escamotage messo in piedi dai partiti nazionali per aggirare il referendum che nel 1993 mise fine al finanziamento dello Stato ai partiti. Provarono con le firme nelle dichiarazioni dei redditi, ricordate?, come per le opere religiose: ma dopo due anni, poiché pochi firmavano, anzi nessuno a confronto dell’Irpef devoluto alle religioni, insabbiarono tutto puntando sui «rimborsi elettorali». Fittizi e nominali ovviamente, perché oggi si è arrivati a 5 euro per ogni iscritto alle liste elettorali (indipendentemente dall’esercizio effettivo del voto) che si moltiplicano ad ogni elezione della Camera, del Senato, delle Regioni e dell’Europarlamento. Un mare di soldi, 200 milioni d’euro all’anno a copertura più che abbondante delle spese sostenute per le elezioni, ma che servono principalmente a sostenere la vita quotidiana dei partiti, tra un turno elettorale e l’altro. «Rimborsi elettorali» però, si devono chiamare. Per non evocare il «finanziamento pubblico» vietato dal popolo sovrano. E per giustificare la finzione, occorre sopportare che del marchingegno approfittino anche partitini nati all’inizio di una campagna elettorale e svaniti con l’elezione di uno o più consiglieri, quando va bene un parlamentare e spesso nemmeno quello. Gli eletti poi stanno a posto, prendono indennità, usano uffici e personale dell’istituzione, della loro lista nessuno si ricorda più. Lista che però risorge ogni anno all’incasso della quota di finanziamento pubblico.

Chiamatela anomalia se volete, paradosso della politica nostrana. Paradossale, del resto, è che i nostri partiti nella Finanziaria approvata prima di Natale abbiano fatto il bel gesto di tagliarsi il 10% del finanziamento pubblico annuale, sbandierando urbi et orbi che rinunciavano così a 20 milioni d’euro su 200 a far data dall’anno in corso. Gran successo del Pd e dell’Unione, attenti ai problemi del Paese e in sintonia con la gente che fatica ad arrivare a fine mese, spiegavano le fonti governative. Solo che, dopo nemmeno due mesi, grazie allo scioglimento anticipato del Parlamento, hanno raddoppiato le tranches legate alle elezioni di Camera e Senato sino al 2011, grazie ad una leggina approvata all’unanimità nel 2006. Sino ad allora, era stabilito che se una legislatura s’interrompeva anzi tempo, lì finiva il rimborso in corso e subentrava quello della nuova legislatura. Cosa normale e logica, ma i tesorieri di partito obiettavano che lo scioglimento anticipato comportava un aggravio di spesa. La leggina, dunque, riparava il danno garantendo - oltre al nuovo - anche il completamento del vecchio rimborso.

Il risultato è che il montepremi complessivo è sceso a 180 milioni annuali per risalire in un batter d’occhio a 270 già quest’anno. Il risparmio insomma, s’è tramutato in più 70 di costo. E sino al 2011, Camera e Senato fruttano il doppio. Per tutti, grandi e piccini.

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